Giuseppe Pignatale
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 La conquista del Lazio.
Roma, durante la sua politica di espansione, dovette affrontare dure lotte contro i popoli vicini spesso causa di elevati sacrifici dei suoi figli migliori....
 
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Sopra: Gallo morente.

Roma, nei primi tempi della repubblica, dovette affrontare gravi problemi sociali all'interno e dure lotte contro vari popoli all'esterno durante la sua espansione.

Dopo la vittoria presso il lago Regillo - vedi prime vicende storiche della Repubblica romana- i Romani conclusero con la lega latina un patto di pace e di alleanza perpetua a scopo difensivo, detto Patto Cassiano, dal nome del console Spurio Cassio che aveva condotto le trattative (493 a. C.).

In questo patto i Romani da soli erano considerati alla pari con tutti i popoli della lega presi insieme: ciò significava che Roma veniva riconosciuta come la più forte tra le città latine, ma che non aveva ancora affermato la propria supremazia nel Lazio. Infatti a Sud della città si trovavano i Volsci, ad Est gli Equi, a Nord gli Etruschi, che erano tutti ostili ai Romani e che miravano ad arrestarne lo sviluppo.
Per assoggettare questi popoli Roma dovette intraprendere una lunga serie di guerre, durate con alterne vicende quasi un secolo e concluse con l'unificazione di tutto il territorio del Lazio sotto il dominio romano (396 a. C.).
Intorno a queste guerre, gli storici antichi, hanno tramandato notizie gran parte leggendarie che testimoniano come partendo da una città di pastori, di ladroni, Roma, col coraggio e sacrificio dei suoi figli, sia diventata una grande potenza del mondo antico. Sorsero quindi varie leggende che i Romani andarono poi ad abbellire.

Vi erano nel Lazio e, anche fuori, dei popoli che si vedevano minacciati da quella alleanza e che tuttavia non erano disposti a farsi da parte. Erano dei popoli rozzi e incolti che come gli Equi, che cercavano di rendersi paurosi in guerra adornandosi i capelli con lunghe code di cavallo, o come, i Volsci, vestiti di pelli d'orso e di lupo. Ma v'era anche il civile popolo degli Etruschi, adesso in decadenza ma che non si rassegnava a farsi dominare da una città che, fino a poco prima, gli era stata soggetta. Ne seguì una serie di guerre che Roma dovette sostenere, nel V secolo prima di Cristo. in parte con l'aiuto delle città latine e in parte da sola. A queste oscure lotte si ricollegano altre leggende famose. Ad esempio quella di Coriolano, che si riferisce alla guerra condotta contro i Volsci. Questo generale patrizio, dopo avere combattuto vittoriosamente i selvaggi Volsci, sarebbe venuto a contrasto con la plebe romana, per non avere voluto concedere una gratuita distribuzione di frumento. Guidata dai suoi tribuni, la plebe lo destituì dalla sua carica, e Coriolano, assetato di vendetta, si rifugiò allora presso i Volsci stessi e si mise a capo di loro guidandoli contro Roma. Si sarebbe forse impadronito della città, se sua madre, alla testa di un gruppo di matrone romane, non fosse andata da lui supplicandolo di desistere: ligio al rispetto filiale Coriolano si ritirò, ma i Volsci, furiosi per quell'abbandono, lo uccisero.


La madre, con un gruppo di matrone romane, andò a supplicare Coriolano di abbandonare l'assedio di Roma.

Un'altra leggenda famosa ci presenta un altro esempio di virtù romana in Tito Quinzio Cincinnato, espressione tipica dell'antica e onesta semplicità campestre. Durante la guerra contro gli Equi. Cincinnato era stato nominato dittatore, carica che i Romani concedevano solo eccezionalmente, per non più di sei mesi, quando una guerra sembrava mettersi male per loro, affidando ogni potere ad un solo generale, che veniva così a sostituire i due consoli. Coloro che erano andati a cercarlo, per proporgli l'alta carica, lo avevano trovato mentre arava il suo campicello, ed egli, lasciato immediatamente il suo umile lavoro, era corso a Roma. Con grande energia Cincinnato prese il comando dell'esercito e della città, fece chiudere i negozi, chiamò alla lotta le forze di tutta Roma e sconfisse il nemico. Dopo di che lasciò la dittatura e tornò ai suoi campi senza nulla pretendere.


Sopra: Roma, il suo territorio e i popoli vicini.

La presa di Veio: i Fabi e Camillo. Un'altra figura leggendaria che emergono in queste guerre fu quella di Marco Furio Camillo, il distruttore di Veio. La città etrusca di Veio era divenuta potente rivale di Roma e spessne devastava il territorio. Le due città furono praticamente in lotta per tutto il V secolo, ma Roma, occupata nelle lotte contro i Volsci e gli Equi, non potrà per molto tempo rivolgersi con la necessaria energia contro l'ultima minacciosa roccaforte degli Etruschi.



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Nel 470 a, C. la nobile e potente famiglia dei Fabi aveva voluto assumersi da sola il compito di arginare la pressione dei Veienti. La tradizione vuole che i membri di questa famiglia con i loro clienti, in numero di trecento, affrontassero il nemico presso il fiumee Cremera e si facessero uccidere fino all'ultimo: unico superstite fu un fanciullo rimasto in Roma, continuò la famiglia. Infine ci si decise ad affrontare Veio una volta per sempre e la città fu cinta d'assedio. Adesso la lotta fu ripresa in modo decisivo. Al pari dell'assedio di Troia, quello di Veio durò dieci anni e la città cadde solo nel 396 prima di Cristo per merito di un generoso patrizio, Marco Furio Camillo, il quale, nominato dittatore, fece scavare un cunicolo che, passando sotto le mura, sboccava nel tempio di Giunone, nel centro della città. Qui giunto, secondo la leggenda, Camillo udì il sacerdote affermare al re di Veio, che lo stava consultando, che avrebbe vinto colui che avesse per primo sacrificio alla dea. Subito Camillo balzò fuori con i suoi uomini, mise in fuga il re, compi il sacrificio e occupò la città. che fu messa a sacco. Tornato a Roma, il dittatore, prima di dimettersi, celebrò un trionfo, passando per la città in un cocchio trainato da quattro cavalli bianchi, e questo atto di vanità gli avrebbe fatto perdere in parte il favore del popolo; questi gli divenne decisamente ostile poco dopo, Camillo, inviato ad assediare la piccola città etrusca di Faleri, capitale della tribù dei Falisci, e avendogli proposto un maestro di scuola di quella città di consegnarli i figli dei principali personaggi falisci perchè egli li tenesse come ostaggi, il generoso Romano rimandò il traditore facendolo ricondurre in città dai suoi stessi discepoli a forza di frustate, trattando poi con i Falisci un equo tributo e rinunciando a espugnare la città. I suoi nemici lo accusarono allora di essersi trattenuto più di quanto gli toccava del bottino di Veio, e Camillo lasciò la città affermando che i Romani avrebbero sentito presto la stia mancanza.

I GALLI. In realtà Camillo non si era sbagliato. Poco dopo, circa il 391 prima di Cristo, un grave pericolo minacciò Roma. Nella pianura padana si erano stabilite da tempo alcune tribù di un popolo vicino dall'attuale Francia, i Celti, che i Romani chiamarono Galli. Secondo il loro costume, queste tribù si mettevano ogni tanto in cammino per fare razzie, tornando poi con buona preda alle loro sedi. Le città etrusche, di solito, arginavano queste scorrerie che non erano mai giunte fino a Roma; ma adesso gli Etruschi erano assai indeboliti, la loro roccaforte, Veio, era stata distrutta, e gli invasori trovarono via libera. Un esercito romano andò ad arrestarli sul fiume Allia, ma le grida selvagge dei Galli, le loro gigantesche stature, i volti tatuati, le lunghe trecce bionde, gli elmi decorati con ali d'aquila o corna di bue, sbigottirono le legioni che volsero in fuga. E il terrore si impadronì della città. La popolazione abbandonò le sue case per rifugiarsi nelle campagne; il senato, i sacerdoti e un gruppo di armati si asserragliarono sulla rocca del Campidoglio e Roma rimase deserta. Solo alcuni vecchi patrizi attesero il nemico seduti sui loro troni nell'atrio delle loro case. Quando i Galli giunsero, trovarono le porte delle mura spalancate e la città vuota e silenziosa. Avanzarono cauti temendo un tranello. Scorsero i vecchi immobili e li credettero dèi; per qualche tempo non osarono prendere una decisione. Poi uno di quei vecchi si mosse, alzò il suo scettro d'avorio e colpì un Gallo che gli accarezzava la barba. Allora l'incanto fu rotto e cominciò la strage. Così racconta la leggenda.
Il ritorno di Camillo. Frattanto sul Campidoglio gli assediati resistevano: un tentativo, da parte dei Galli, di prendere la rocca di sorpresa fu sventato dallo strepitio fatto dalle oche sacre a Giunone. In fondo però gli invasori non avevano alcuna intenzione di tenersi la città: volevano solo preda ed erano disposti a ritirarsi a prezzo d'oro.

Il "brenno" gettò la spada sulla bilancia gridando " Guai ai vinti!"
Venne dunque patteggiato il riscatto. Furono portate le bilance e i Romani, racconta la tradizione. vi caricarono l'oro raccolto. A questo punto la vicenda si avvolge di luci eroiche: l'oro non raggiunge il peso pattuito perché le bilance dei Galli sono falsificate: i Romani protestano; il « Brenno », ossia il condottiero gallo, getta sul piatto della bilancia la propria spada gridando: « Guai ai vinti! » Lo sgomento è generale quando l'esule Camillo giunge con un esercito: piegato dai fuggiaschi che si erano rifugiati fra le rovine di Veio, invocato dallo stesso senato, Camillo ha radunato gli uomini validi, ha ricostituito un esercito e adesso può affermare che « Roma non si difende con l'oro ma col ferro ». E sbaraglia i barbari.
Come le amarono i Rontani queste loro antiche storie! Per secoli se le raccontarono, le fecero imparare ai loro tigli, le arricchirono di particolari. E per altri secoli ancora tutti i popoli d'Europa continuarono a raccontarsele e a citarle conte esempi storici. Sono leggende, certo, e, per di più, leggende che cercano di nobilitare momenti difficili attraversati dalla giovane repubblica. che non fu sempre vittoriosa e dovette sostenere sconfitte dure e mortificanti. Ma il loro valore consiste nella loro singolare forza d'insegnamento, nella loro straordinaria efficacia morale.
I Greci ebbero leggende molto più belle, che furono modelli d'arte; le leggende romane divennero modelli di vita.