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Costantino il Grande.
Costantino è tra i più importanti imperatori romani. Ebbe la capacità di imporsi agli avversari, che fecero brutta fine, e di riunificare l'impero mostrando il fallimento
alla tetrarchia di Diocleziano. Con Costantino si inizia ad affermare il Cristianesimo anche se rimarrà fedele al culto del dio Sole. Fece importanti modifiche amministrative
che però determinarono un forte aumento di tasse, riformò l'esercito con l'introduzione, anche nel comando, dei barbari,.....
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| APPROFONDIMENTI.
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Flavio Valerio Aurelio Costantino, conosciuto anche come Costantino il Grande e Costantino I (latino: Flavius Valerius Constantinus, greco: Konstantinos o Mègas; nacque Naissus,
27 febbraio 274 – Nicomedia, 22 maggio 337), e fu imperatore romano dal 306 alla sua morte. Costantino è una delle figure più importanti dell'Impero romano che riformò largamente
e nel quale favorì la diffusione del cristianesimo. Tra i suoi interventi più significativi, la riorganizzazione dell'amministrazione e dell'esercito, la creazione di una nuova
capitale a oriente (Costantinopoli) e la promulgazione dell'Editto di Milano sulla libertà religiosa.
È considerato santo e "simile agli apostoli" dalla Chiesa ortodossa, da alcune Chiese orientali antiche e in alcune località oggi romano-cattoliche di rito latino come Sedilo in
Sardegna. Il suo nome non è però presente nel Martirologio Romano, il catalogo ufficiale dei santi riconosciuti dalla Chiesa cattolica.
Fonti primarie.
Le fonti primarie sulla vita di Costantino e sulle relative vicende da imperatore devono essere prese con le dovute cautele. La principale fonte contemporanea è costituita da
Eusebio di Cesarea, autore di una Storia Ecclesiastica che non manca di esaltare la gloria e la nobiltà di Costantino in quanto imperatore cristiano, a cui fece seguito una Vita di
Costantino che ne costituisce un vera e propria agiografia. Anche Lattanzio, nel suo De mortibus persecutorum, delinea in modo netto la distinzione fra il pio Costantino e il
perverso Diocleziano. Distinzione forse non del tutto disinteressata, visto che Lattanzio, nato in Nordafrica da famiglia pagana e convertitosi al cristianesimo, dovette fuggire
precipitosamente da Nicomedia, sede imperiale di Diocleziano, all'alba dell'ultima persecuzione contro i cristiani, nel 303.
La stessa cautela deve valere per la Storia Nuova di
Zosimo, pagano e anticristiano, che mostra evidenti pregiudizi in senso opposto.
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 Busto di Costantino.
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Infine, l'appendice alla storia di Ottato di Milevi sullo scisma donatista racchiude alcune lettere che Costantino avrebbe inviato ai cristiani del Nordafrica e che, se autentiche,
potrebbero rivelare alcuni tratti del pensiero dell'imperatore riguardo alla questione cristiana.

Sopra: statua di Elena ai Musei Capitolini a Roma.
a destra: Icona ortodossa bulgara con l'imperatore e la madre Elena e la "vera croce".
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Era figlio di Costanzo Cloro e della sua compagna Elena. Si conosce pochissimo della sua gioventù: perfino la sua data di nascita è incerta. Aveva una statura imponente,
in grado di terrorizzare i suoi coetanei, ed era detto Trachala per il suo largo collo. Nel 288 Costanzo era stato nominato Prefetto del pretorio (cioè comandante militare)
delle Gallie da Massimiano ed ebbe notevoli successi in questo ruolo, tanto da riuscire a sconfiggere Carausio, un usurpatore di origine franca che aveva conquistato il
controllo della regione del Reno. Grazie a questi successi nel 293, in base al sistema della Tetrarchia voluta da Diocleziano, viene nominato cesare dall'augusto di Occidente,
Massimiano, di cui sposa la figliastra Teodora. Costantino viene affidato all'Augusto d'Oriente, Diocleziano. Costantino fu quindi educato a Nicomedia presso la corte
dell'imperatore, sotto il quale iniziò la carriera militare: fu tribuno ordinis primi, viaggiò in Palestina e partecipò alla guerra romano/danubiana, contro i Sarmati.
Fu ancora con Diocleziano in Egitto nel 296 e quindi combatté sotto
Galerio, cesare d'Oriente, contro i Persiani e i Sarmati.
Per rafforzare l'impero romano sempre più minacciato dai barbari, l'imperatore Diocleziano aveva creato la
tetrarchia mettendogli a capo 2 Augusti e 2 Cesari: tutte
le riforme di Diocleziano erano state un fallimento,
anche la successione all'impero fu destinata a fallire miseramente in questo nuovo periodo dell'Impero.
Infatti Diocleziano dopo l'abdicazione, ritiratosi nella sua solitaria villa di Solona non tardò ad assistere alla
morte della tetrarchia che lui aveva concepito e a tante tragedie.
Il primo maggio del 305, quindi, Diocleziano abdicava a favore del proprio cesare Galerio e lo stesso faceva Massimiano, in occidente, a favore di Costanzo. Galerio nominava proprio cesare
il nipote Massimino Daia, mentre Costanzo sceglieva come proprio successore Flavio Severo. Fu in questo frangente che Costantino raggiunse il padre in Britannia (alcune fonti
vogliono che quella di Costantino sia stata una vera e propria fuga da Nicomedia, dove Galerio avrebbe voluto trattenerlo per garantirsi la fedeltà di Costanzo Cloro) e condusse
con lui alcune campagne militari nell'isola.
Costantino quindi
mentre il padre combatteva in Britannia lui era impegnato in Oriente con GALERIO (altro successore) e pur richiamato dal padre in Britannia per farsi aiutare a sconfiggere i Pitti,
trovò in Galerio un netto rifiuto. Tale presa di posizione sembrò a padre e figlio un vero e proprio atto di ostaggio. Stava quindi sorgendo un caso piuttosto critico preoccupante.
Alla fine Galerio (raccontano i maligni - ma il comportamento di Costantino lo fa supporre) avendo predisposto con l'aiuto di Severo (l'antagonista di Costantino) lungo il percorso
delle trappole con delle imboscate, era convinto che pur rilasciando Costantino, questi non sarebbe mai arrivato a destinazione.
La leggenda narra che Costantino appena rilasciato, dall'Oriente fino a Boulogne in Francia, cavalcò ininterrottamente senza mai fermarsi, senza mai dormire, sfiancando più di
un destriero, onde evitare quello che forse immaginava e temeva: di essere assassinato lungo il percorso.
Scampato ad ogni tranello teso, Costantino si ricongiunse con il padre Costanzo e quindi lo troviamo quest'anno ad affrontare i Pitti, ma disgraziatamente il padre nello scontro
perse la vita: circa un anno dopo, il 25 luglio 306, Costanzo Cloro moriva combattendo contro i Pitti, nei pressi dell'attuale York e l'esercito,
guidato dal generale germanico
Croco (di origine alamanna), proclamava Costantino nuovo augusto d'occidente, mettendo a repentaglio il meccanismo della tetrarchia, ideato da Diocleziano proprio per porre termine
all'uso ormai consolidato degli eserciti di proclamare di propria iniziativa gli imperatori.
Si veniva a creare subito una critica situazione dinastica.
Secondo l'ordinamento di Diocleziano spettava a VALERIO SEVERO la porpora di Augusto, ma prima che Galerio, come più
anziano, proclamasse il nuovo collega, le legioni di Britannia proclamarono imperatore COSTANTINO di cui avevano potuto
apprezzare, nella campagna contro i Pitti le sue qualità militari. .
Per impedire che scoppiasse una guerra civile, Galerio concesse a Costantino la dignità di Cesare e innalzò all'impero
Valerio Severo, salvando così artificiosamente la costituzione di Diocleziano e accontentando i soldati in Britannia.
Ma così facendo Galerio dava un cattivo esempio alle altre truppe e dava occasione a chi si trovava nelle medesime
condizioni di Costantino di violare le norme che regolavano la successione. Da questa erano esclusi i figli degli Augusti, ma poiché Costantino era stato assunto
alla dignità di Cesare non osservando la costituzione, non mancò chi pretese per sé quello ch'era stato concesso ad altri.
Questi fu M. Valerio MASSENZIO, figlio di Massimiano. Approfittando del malcontento di Roma, provocato da Galerio che aveva tolto ai romani l'ultimo privilegio estendendo
anche alla metropoli l'imposta fondiaria, il 27 ottobre del 306 Massenzio si fece proclamare imperatore.
A reprimere la ribellione che era costata la vita ad Abellio, prefetto della città, caduto per mano dei pretoriani, fu Valerio SEVERO, che allora si trovava in Pannonia, e che
marciò immediatamente su Roma. Massenzio, che non aveva truppe sufficienti per muovergli contro, richiamò dalla Lucania il padre Massimiano e questi, che malvolentieri aveva
abdicato, accettò l'invito del figlio e, recatesi a Roma, si rimise addosso la porpora.
La sua presenza salvò Massenzio e causò la rovina di Severo. Le sue legioni che in gran parte avevano militato sotto Massimiano, quando furono nelle vicinanze di Roma, si
rifiutarono di combattere contro il loro vecchio imperatore e passarono nelle sue file. Severo, abbandonato dai suoi soldati, fuggì a Ravenna, ma, assediato si arrese poi a
Massimiano che lo relegò in una prigione.
Non era ancora trascorso un anno e mezzo dall'abdicazione di Diocleziano, e quella costituzione che doveva dare stabilità al potere imperiale era già morta.
L' impero romano aveva tre Augusti e due Cesari e tra i primi si trovava il vecchio collega del solitario di Solona!
Ma uno degli Augusti voleva che la costituzione dioclezianea fosse rispettata. Era questi GALERIO, che dall'Illirio si diresse alla volta dell' Italia per liberare il collega
prigioniero a Ravenna ed abbattere i due usurpatori. Ma il tentativo non gli riuscì. Appena giunse in Italia il suo stesso esercito gli fece capire che non intendeva muovere contro
Roma e, poiché egli si ostinava nel suo proposito, parte delle legioni gli si ribellarono. Allora Galerio non trovò di meglio che trattare con il vecchio Massimiano.
Ma Massenzio il figlio, che temeva l'ambizione del padre ed era sicuro di venir sacrificato, gli attraversò i disegni, e mise contro il padre le guardie e il popolo
e fece uccidere Valerio Severo (agosto del 307).
Erano a questo punto le cose quando Diocleziano, che da Solona assisteva con tristezza al crollo della sua opera, pregato da Galerio, si recò a Carnuntum ad un convegno cui
prese parte anche Massimiano. Questi propose all'antico collega di riprendere la porpora, ma il vecchio imperatore rifiutò, dicendo fra l'altro:
«Se tu vedessi i bei piselli che mi coltivo giudicheresti tu stesso se la porpora mi possa ancora allettare ».
Fu un male. Forse l'impero avrebbe avuto un altro periodo di pace se Diocleziano fosse ritornato al trono e con la sua autorità ristabilita la tetrarchia. Si ostinò nel rifiuto, e
riuscì a far deporre la porpora pure a Massimiano
Se il ritiro di un pretendente rendeva meno difficile la situazione, un'altra decisione presa a Carnuntum nel novembre di quell'anno impediva ad altri il beneficio dato a
Costantino:
infatti oltre Massenzio che fu escluso dall' impero (ma seguitava a Regnare a Roma), come successore di Severo fu scelto LICINIO, amico e compagno di Galerio.
La proclamazione del nuovo Augusto era un'aperta violazione alla costituzione di Diocleziano secondo la quale per ottenere la porpora imperiale si doveva prima avere la dignità di
Cesare. Licinio che non era mai stato tale veniva a ledere i diritti di Massimino e di Costantino, i quali, senza perdere tempo, si proclamarono non più Cesari, ma anche loro
Augusti.
Cosi, al principio del 308, l'impero aveva cinque Augusti: GALERIO, MASSENZIO , COSTANTINO, LICINIO e MASSIMINO.
A complicare la situazione, già grave, si aggiungeva l'ambizione di Massimiano. Si era pentito di avere deposta per la seconda volta la porpora e, poiché non poteva più sperare
nell'appoggio del figlio, si rivolse a Costantino, cui diede in moglie la figlia Fausta Massimiana, e tentò anche a Roma di abbattere suo figlio Massenzio, ma, fallito il tentativo
per il contegno contrario dei pretoriani, dovette abbandonare la metropoli e cercare ospitalità alla corte di Costantino.
Sebbene accolto con ogni onore dal genero, il vecchio mal sopportava la sua condizione di cittadino privato ed aspettava una occasione favorevole per riprendere la porpora.
L'occasione gli fu data dai Franchi, i quali, invadendo la Gallia dal Medio Reno, costrinsero Costantino ad accorrere contro il nemico alla testa di un gruppo di legioni.
Approfittando dell'assenza del genero, Massimiano s'impadronì della cassa dello stato, di cui divise il denaro fra le milizie della Gallia meridionale, e si proclamò imperatore ad
Arles, ma, saputo che Costantino tornava, si ritirò a Marsiglia dove sperava di resistere. La guarnigione della città, invece, aprì le porte a Costantino e gli consegnò il suocero
e il genero non indugiò a metterlo morte nel febbraio del 310.
Un anno dopo, nel 311, a Cirta, città d'Africa, dove si era chiuso ed era stato assalito dal prefetto del pretorio Eufio Volusiano, periva L. Domizio Alessandro che, ribellatosi a
Massenzio, da due anni si era proclamato imperatore. Una delle tante schegge finite subito male.
L'EDITTO DI NICOMEDIA
In questo stesso anno avviene un fatto di grande importanza: il 30 aprile, a Nicomedia anche a nome di Costantino e di Licinio, GALERIO pubblica un editto con il quale si
concede ai Cristiani, purché essi rispettino le leggi, libertà di culto e la riedificazione delle chiese. È la prova del fallimento della politica anticristiana. Le cose erano a tal punto che bisognava decretare lo sterminio dei Cristiani o venire ad una riconciliazione. Le mezze misure adottate fino allora non solo non avevano dato alcun risultato favorevole ai persecutori, ma avevano indebolita la loro posizione specie dopo il fallimento della costituzione di Diocleziano, l'avvento di tanti imperatori e il pericolo di una guerra civile.
Contro il Cristianesimo, invece che la lotta a oltranza che avrebbe spopolato le province d'Oriente, si preferì la conciliazione, ma vi rimasero estranei, anzi contrari, Massimino e Massenzio.
Cinque giorni dopo, il 5 maggio del 311, moriva Galerio.
Parve allora che dovesse scoppiare una guerra civile tra MASSIMINO e LICINIO: il primo, ritenendosi erede legittimo di Galerio, voleva che il collega lo riconoscesse superiore, mentre il secondo desiderava aggiungere alla penisola balcanica, di cui aveva il dominio, l'Asia Minore e il Ponto. Ma le ostilità non ebbero luogo e tra i due Augusti si venne ad un accordo in virtù del quale a Massimino rimasero le province d'Asia e l'Egitto, e a Licinio la penisola balcanica.
La guerra si andava invece maturando in Occidente tra MASSENZIO e COSTANTINO. Il primo continuava nella sua politica filopagana, che lo accostava a Massimino, e aspirava a diventar padrone delle province sottoposte a Licinio e a Costantino. Anche se aveva sotto di sé numerose truppe, non godeva il favore del popolo né quello del Senato, il quale, pur essendo l'ombra di sé stesso, desiderava in qualche modo risorgere.
Costantino, pur rimanendo un devoto del dio Sole, rispettava i suoi sudditi pagani al pari dei Cristiani, anzi di molti di loro amava circondarsi; era in segreti rapporti con i senatori e si procurava l'amicizia e l'appoggio di Licinio promettendogli in moglie la sorella Costanza. Costantino non disponeva di un esercito numeroso come quello di Massenzio, ma in compenso le sue truppe erano agguerrite e disciplinatissime e molto devote al loro imperatore che era stato capace più volte di portarle alla vittoria contro i Pitti in Britannia o contro i Franchi e gli Alemanni oltre il Reno.
Il primo ad iniziare le ostilità fu Costantino, che, lasciata a guardia del Reno e della frontiera britannica parte delle sue truppe, con un esercito di cinquantamila uomini, la maggior parte veterani, nel 312 passò le Alpi attraverso il Moncenisio e scese in Italia.
La prima resistenza la trovò a Segusia (Susa) ma fu presto superata: la città fu presa d'assalto dai suoi uomini e subito incendiata. Le fiamme non distrussero Susa; Costantino, che era dotato di finissimo tatto politico, volle cominciare la sua campagna con un atto di clemenza ed ordinò agli stessi suoi soldati piromani che l'incendio venisse subito spento.
Poi marciò su Torino, nei cui pressi venne combattuta una grande battaglia. L'esercito mandato da Massenzio era dotato di un forte corpo di cavalleria pesante. Costantino seppe evitarne l'urto facendo aprire abilmente il proprio fronte e si sbarazzò dei cavalieri nemici con assalti laterali eseguiti da schiere armate di mazza. Sbaragliata la cavalleria, la fanteria di Massenzio fu messa in rotta e cercò riparo dentro le mura delle città, ma questa una volta tutti dentro chiuse le porte ma le aprì a Costantino e vennero poi tutti sterminati; compiuta la strage, avanzando in poco tempo si rese padrone di quasi tutta la Transpadana e Milano lo accolse trionfalmente.
Un esercito di Massenzio stava al campo presso Brescia, ma, messo in rotta anche questo da Costantino, dovette riparare a Verona. Ruricio Pompeiano, valentissimo generale che comandava le truppe di Massenzio, schierò l'esercito sull'Adige, ma Costantino seppe superare l'ostacolo e con una rapidissima marcia passò il fiume a monte di Verona ed investì da nord la città, dove il nemico si era ritirato. Ruricio allora tentò di eseguire un piano che, se gli fosse riuscito, avrebbe troncato a mezzo la spedizione di Costantino. Egli uscì segretamente da Verona e, messosi alla testa di nuove milizie, ritornò contro il nemico sperando di averne ragione. La fortuna gli fu avversa, l'abilità di Costantino fece fallire il disegno di Ruricio.
L'imperatore non abbandonò il blocco di Verona intorno alla quale lasciò parte delle truppe, col resto andò contro Pompeiano. La battaglia fu accanitissima e per lungo tempo l'esito rimase incerto, ma quando Ruricio cadde, l'esercito nemico fu sbaragliato. Verona si arrese e ne seguirono l'esempio Modena ed Aquileia.
COSTANTINO A ROMA
Alla morte di Galerio nel 311, i tre augusti rimasti si coalizzarono contro Massenzio. Costantino, ormai sospettoso nei confronti di Massenzio, riunito un grande esercito formato
anche da barbari catturati in guerra, oltre a Germani, popolazioni celtiche e provenienti dalla Britannia, mosse alla volta dell'Italia attraverso le Alpi, forte di 90.000 fanti e
8.000 cavalieri.[16] Lungo la strada, Costantino, lasciò intatte tutte le città che gli aprirono le porte, al contrario Massenzio assediò e distrusse quante si opposero alla sua
avanzata. Egli, dopo aver battuto due volte Massenzio prima presso Torino e poi presso Verona prese
per la via Flaminia e si mise in marcia alla volta di Roma.
Secondo la tradizione ecclesiastica riportata da Eusebio, prima che giungesse in vista della metropoli, una croce sfolgorante di luce si disegnò nell'azzurro del cièlo agli occhi
di Costantino con il motto In hoc signo vinces e l'imperatore volle o permise che sui labari e sugli scudi i soldati ponessero il monogramma di Cristo. E' probabile che abbia visto un asteroide: lui sa realmente!
A Roma intanto il popolo, che temeva le conseguenze di un lungo assedio, spingeva il figlio di Massimiano ad uscire incontro al rivale e gli aruspici e i libri sibillini
vaticinavano che sarebbe perito il nemico di Roma. Confortato dal responso, Massenzio uscì dalla metropoli e, passato il Tevere a ponte Milvio, schierò il suo esercito tra la riva
destra del fiume e alcune basse colline e mai un
capitano scelse per le sue truppe una posizione più infelice.

Apparizione della croce, Raffaello Sanzio; la croce e la scritta "In hoc signo vinces " appaiono a Costantino I
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  Esempio di Chi-Ro;
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Costantino, giunto in faccia al nemico il 28 ottobre del 312, seppe trarre immediato vantaggio ordinando ai suoi di attaccare Massenzio. Solo la guardia dei pretoriani oppose
accanitissima resistenza a Costantino, le altre truppe, specie la cavalleria, furono scompigliate al primo urto. Alla disfatta seguì una fuga precipitosa e disordinata sopra un
ponte di legno che Massenzio aveva fatto costruire a monte del Milvio, ma per il troppo peso o per la poca solidità il ponte crollò trascinando nel fiume quanti vi erano sopra: fra questi Massenzio che trovò la morte nelle acque.
Costantino entrò a Roma accolto trionfalmente. Un figlio di Massenzio e alcuni suoi ministri furono messi a morte, i pretoriani furono sciolti e la loro cittadella
fuori porta Nomentana venne demolita. Le vendette non andarono più in là: l'imperatore era buon politico e, pur avendo con sé la forza e sapendo come si era ridotto il Senato,
promise una restaurazione degli antichi privilegi e da quella larva di Curia ebbe il titolo di primo degli Augusti, statue e un arco di trionfo che venne rivestito dei bassorilievi
come quelli di Traiano.
EDITTO DI MILANO
La scomparsa di Massenzio e la conquista dell' Italia alteravano in favore di Costantino l'equilibrio tra quest'ultimo e Licinio. Si rendeva necessaria quindi una conferenza tra i
due imperatori d'Occidente. Il convegno ebbe luogo a Milano -nei primi del 311- e qui venne celebrato il matrimonio tra Costanza e Licinio. A Milano i due Augusti pubblicarono un
editto (Editto di Milano) che segna un gran passo verso l'affermazione del Cristianesimo. In esso veniva riconfermato quanto era stato detto in quello del 311; in più si ordinava
la restituzione ai Cristiani dei beni confiscati, e il Cristianesimo veniva messo alla pari delle altre religioni. Nell'editto, inoltre, c'era un' implicita professione di fede
monoteistica, parlando di Divinità anziché di Dèi a questa Divinità si invocava il favore per i monarchi e per i sudditi.
Ma non certo di religione soltanto si parlò a Milano e il fatto che Massimino dal convegno fu escluso ci mostra chiaramente che un'azione contro quest'ultimo fu discussa e decisa
tra Licinio e Costantino. Per la prima volta la religione fu messa a servizio della politica. Massimino, dopo un brevissimo periodo di tregua, aveva ricominciato a perseguitare i Cristiani e aveva tentato di rialzare il prestigio del paganesimo riorganizzandone il sacerdozio ed affidandogli l'esecuzione dei provvedimenti contro i seguaci della religione avversaria. Costantino e Licinio invece con il loro editto intendevano accaparrarsi la simpatia dei numerosi Cristiani d'Oriente e metter contro Massimino gli stessi suoi sudditi.
L'editto di Milano venne spedito a Massimino con l'invito di desistere dalle persecuzioni, e Massimino al cui esercito una guerra contro la Persia e una violentissima peste avevano
arrecato gravi danni, dovette far mostra di aderire all'editto dei due colleghi.
Poi Massimino segretamente incominciò i preparativi per una guerra contro Licinio e nell'inverno del 312-13, mentre Licinio si trovava ancora in Italia e non si aspettava di essere
attaccato, passò con un forte esercito di qua dal Bosforo, prese d'assalto successivamente Bisanzio, Eraclea e Perinto, e marciò verso Adrianopoli. Qui corse precipitosamente ad incontrarlo Licinio. Di molto inferiori erano le sue forze, ritenne quindi opportuno il cognato di Costantino fare delle proposte di pace al suo rivale, ma questi, sentendosi sicuro, rifiutò.
Il 30 aprile del 313 si venne a battaglia nei Campi Sereni, tra Eraclea ed Adrianopoli dove Licinio dicesi che facesse ai suoi soldati innalzare una preghiera al Deus Summus
et
sanctus : «Dio supremo, noi ti preghiamo, - Dio santo, noi ti preghiamo. — Ogni giusta causa a te raccomandiamo; a te la nostra salvezza raccomandiamo, — a te raccomandiamo il
nostro impero.... ».
La vittoria fu dell'esercito di Licinio. Massimino in fuga, dovette ripassare il mare e fuggire in Bitinia; il vincitore non rimase a dormire sugli allori: il 13 giugno entrava a Nicomedia e vi pubblicava l'editto di Milano. Il vinto si era ritirato in Cappadocia e, mentre si apprestava a raccogliere forze per sbarrare al nemico i passi del Tauro, mutava la sua politica e cercava con un suo editto di guadagnarsi le simpatie dell Oriente cristiano.
Ma era troppo tardi: i Cristiani avevano accolto Licinio come liberatore e non avevano interesse alcuno di parteggiare per l'antico nemico il cui mutamento reigioso non era certo sincero.
Poi nel dicembre lo stesso anno Massimino che si trovava a Tarso improvvisamente morì.
Con la scomparsa di Massimino, Licinio diventava il padrone dell'Oriente. Poteva essere clemente dopo il trionfo: ma non volle, temendo per sé in un avvenire prossimo o lontano delle sorprese, così fu spietato contro le tre famiglie imperiali. La moglie di Massimino la fece perire nell'Oronte e i due figlioletti e i ministri li mandò a morte; poi fece uccidere anche il figlio di Galerio e il figlio di Valerio Severo. Né qui si arrestò la ferocia del vincitore: perirono pure nella strage di Tessalonica la moglie e la figlia dello stesso Diocleziano che erano nella città.
Se è vero che il, vecchio Diocleziano si spense nel 316, egli ebbe la sventura di sopravvivere al crollo della sua riforma, e alla strage della sua famiglia, nel solitario palazzo di Solona, da cui si era rifiutato di partecipare al convegno di Milano e invano aveva pregato che Massimino gli rimandasse indietro la moglie e la figlia.
Egli venne sepolto nel mausoleo che s'era fatto erigere di fronte al tempio di Giove Ottimo Massimo; ma neppure qui il corpo del grande imperatore doveva trovare il riposo che invano aveva cercato in vita.
LA GUERRA FRA COSTANTINO E LICINIO.
Dopo la morte di Massimino l'impero ebbe la pace solo per pochi mesi, poi la guerra civile scoppiò nuovamente e questa volta tra i due imperatori.
Gli storici affermano che lo scontro fu causato da una congiura ordita da Bassiano marito di Anastasia, contro il cognato Costantino; una congiura alla quale avrebbe partecipato Licinio, e può anche darsi; ma il vero motivo della guerra deve ricercarsi nell'ambizione del figlio di Costanzo Cloro e in quello squilibrio che si era venuto a creare dopo la scomparsa di Massimino
Caio Licinio si era venuto a trovare padrone delle più vaste e più ricche province dell'impero e -ciò che più conta- in possesso dell' Illirico, miniera inesauribile di soldati e da dove si poteva minacciare seriamente l'integrità dei territori d'Occidente.
Costantino che mirava a diventare l'unico padrone di tutto l' impero, fallito il tentativo di far suo l'Illirico, colse il pretesto per muovere guerra al collega a causa del rifiuto oppostogli da Licinio di consegnargli Senecione -uno dei congiurati- che si era rifugiato alla sua corte.
Con la risolutezza che gli era solita, Costantino invase prima l'Illirico. Con sé aveva un esercito piuttosto scarso come numero - venticinquemila uomini circa in tutto - ma era
composto di soldati agguerriti che avevano una grandissima fiducia nel loro capo e questi, d'altro canto, contava sul proprio talento e sulla rapidità delle sue mosse. Due battaglie
furono combattute: una a Cibale, in Pannonia, sulla Sava, l'8 ottobre del 314, l'altra presso Adrianopoli, nella pianura tracica di Mardia.

Schema della battaglia avvenuta presso Adrianopoli nel 324, dove Costantino, seppure in inferiorità numerica, prevalse su Licinio, il quale lasciò sul campo secondo Zosimo
ben 34.000 armati.
L'una e l'altra finirono con la vittoria di Costantino. Non furono però vittorie decisive: il vincitore disponeva di poche truppe per poterle sfruttare; mentre il nemico, sebbene
sconfitto, aveva grandi riserve pronte e con le quali rendeva difficile il vettovagliamento dell'esercito d'Occidente, infine l'inverno avanzava e costituiva un alleato prezioso
per Licinio.
Per questi motivi Costantino accettò le proposte di pace che il rivale gli offriva, ed ebbe per sé il Norico, la Dalmazia, la Pannonia, parte della Mesia, la Macedonia, la Dacia l'Epiro e la Grecia. Licinio conservò il resto della Mesia, la Scizia e la Tracia e sacrificò Cajo Aurelio Valente che durante la guerra aveva nominato Cesare.
Alla stessa dignità Costantino innalzò il proprio figlio CRISPO, avuto dalla prima moglie Minervina, e l'altro figlio Flavio Claudio Costantino; dal canto suo Licinio creò Cesare
il figlio LICINIANO.
La pace conclusa dopo la battaglia di Mardia durò circa nove anni. Pareva che la tetrarchia dioclezianea fosse stata restaurata, ma in sostanza - pur essendo uno l'impero - come al tempo di Diocleziano, non era invece unico l'indirizzo politico, specialmente nei riguardi della religione. Se per alcuni anni Licinio rispettò l'editto di Milano, mantenendosi inizialmente neutrale in mezzo ai vari culti, Costantino fece una politica apertamente più favorevole al Cristianesimo e senza perseguitare i pagani.
Egli accordò al clero l'esenzione dalle imposte e dai munera civilia, riconobbe alla chiesa il diritto di accettare legati ed eredità ed accrebbe l'autorità dei vescovi considerando valide le loro sentenze nelle cause civili, il che rappresentava un grandissimo privilegio per i Cristiani che venivano sottratti al giudizio dei tribunali di Stato. E non solo con i privilegi Costantino si assicurò l'appoggio della chiesa ma anche con i donativi; e fu tale il prestigio che egli riacquistò tra i Cristiani da esser chiamato a dirimere le loro contese interne (anche se erano puramente di carattere teologico, lui che era, e rimase sempre un adoratore del dio Sole).
LE DISCORDIE DEI CRISTIANI
Violente discordie travagliavano la chiesa africana. Dopo le persecuzioni di Diocleziano si era formato, in seno alle comunità cristiane d'Africa, un partito di intransigenti, i quali volevano che fossero esclusi dalle comunità stesse i cosiddetti traditores, tutti coloro cioè che in obbedienza ai precedenti editti di persecuzione avevano consegnato i libri e gli arredi sacri. Essendo rimasta nel 311 vacante la sede vescovile di Cartagme era stato eletto Ceciliano, ma gl'intransigenti non avevano voluto riconoscerlo perché nominato dai traditores e gli avevano opposto prima Maggiorino poi Donato, da cui prese nome lo scisma (Donatismo).
Costantino, che voleva una chiesa forte e concorde, non poteva disinteressarsi delle contese che, dividendo in due campi la chiesa creavano violenze e disordini, e intervenne. Per ordine suo fu nominata una commissione che risultò composta da tre vescovi delle Gallie, da Merocle vescovo di Milano e da Milziade vescovo di Roma. In questa città e sotto la presidenza del suo vescovo ebbe luogo il concilio che si pronunciò in favore di Ceciliano. I Donatisti non furono contenti del giudizio del consesso e si appellarono al tribunale imperiale, sostenendo che i vescovi non avevano preso in esame il tradimento di Felice di Aptonga, di colui cioè che aveva consacrato Ceciliano.
Costantino nel 314 convocò ad Arles un nuovo e più numeroso concilio di vescovi, che confermò la sentenza del convegno di Roma; ma neppure quella di Arles venne accettata dai Donatisti. A questo punto, l'imperatore chiamò a comparire davanti il suo tribunale a Milano i due vescovi competitori, e qui decise a favore di Ceciliano, indi ordinò che le chiese occupate dai Donatisti venissero sequestrate e agli scismatici applicata la pena dell'esilio e della confisca. Ma nemmeno questi provvedimenti giovarono e dopo cinque anni di disordini e di lotte l'imperatore avendo compreso che perfino la forza era impotente a risolvere questioni di fede, decise di tollerare gli
scismatici e convinse i cattolici che la cosa migliore da farsi era quella di attendere eventi migliori.
Mentre Costantino, pur rimanendo pontefice massimo del paganesimo, lentamente si accostava al Cristianesimo di cui già aveva accettato il fondamentale principio di fede nel Dio unico, e del Cristianesimo abilmente iniziò a farne uno strumento della sua politica.
Licinio andava abbandonando la sua neutralità e si accostava al paganesimo: per misura di moralità e di ordine pubblico proibiva che uomini e donne insieme intervenissero alle funzioni cristiane e che i vescovi predicassero davanti alle donne; vietava che le assemblee dei Cristiani si tenessero entro le mura della città, ed epurava la sua corte e l'amministrazione statale dagli elementi cristiani.
La lotta che da tempo si andava preparando tra Costantino e Licinio assumeva anche un carattere religioso. I Cristiani d'Oriente erano tutti per Costantino, per l'imperatore che concedeva ampia libertà di culto, che dava somme per la costruzione di chiese, che si circondava di Cristiani, che teneva in grande stima i vescovi, che si adoprava per appianare e risolvere le contese, che assegnava a un corpo delle sue migliori guardie, come insegna, il labaro sormontato dalla croce, per quell'imperatore che essi consideravano cristiano. Ma Cristiano Costantino non era; era un monoteista. Ma la sua politica era così abile che sembrava pagano ai pagani e cristiano ai cristiani.
La guerra che l'uno e l'altro andavano da tempo preparando, scoppiò nel 323.
Forse per rendere più sicura la frontiera del Danubio, forse per avere pronte truppe contro il collega e forse anche per l'una e l'altra cosa insieme, Costantino aveva effettuato un concentramento di milizie nell'Illirico. Nell'estate del 322 i Goti condotti da re Rausimondo, avevano passato il Danubio. Costantinoli aveva sconfitti e inseguiti oltre il fiume.
Un'altra invasione di Goti aveva avuto il medesimo risultato. Si crede che,guerreggiando contro questi barbari, Costantino sia passato nei territori balcanici appartenenti a Licinio costrettovi da necessità belliche. Ma questa violazione costituì il casus belli.
Le ostilità furono iniziate nell'estate del 323 e la prima battaglia venne combattuta il 3 luglio. Licinio con un esercito molto più numeroso di quello del rivale, aveva preso posizione sopra una collina che dominava l'Hebro (Maritza), nelle vicinanze di Adrianopoli. Con una manovra che ricorda quella usata presso Verona contro Ruricio Pompeiano, Costantino passò il fiume e, minacciando di aggirare il nemico, lo costrinse a lasciare la sua posizione. Ingaggiatosi il combattimento, questo ebbe un esito favorevole per Costantino. Licinio, sconfitto, riparò a Bisanzio e vi venne assediato, mentre Abante il suo ammiraglio, con una flotta di duecento navi tentava di impedire che la flotta nemica inferiore per numero di navi, comandata da Prisco, primogenito di Costantino che nel 320 si era segnalato sul REno contro i Franchi e gli Alemanni, forzasse l'Ellesponto e prestasse man forte all'esercito. Ma anche sul mare la fortuna fu contraria a Licinio: a Gallipoli la sua flotta venne sconfitta e il giorno dopo, sbattuta dai venti, dopo aver subito molte perdite fu costretta a rifugiarsi a Calcedonia.
Qui Licinio che non poteva più sostenersi a Bisanzio, raggiunse Abante e si preparò a chiudere al rivale la via dell'Asia. Ma non gli riuscì: padrone del mare, Costantino passò il Bosforo, e Licinio dovette affrontarlo con un ultimo esercito.
La battaglia ebbe luogo a
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Albero genealogico della dinastia costantiniana che ha in Costanzo Cloro il vero capostipite.
Crisopoli (Scutari) il 18 settembre e la vittoria fu ancora di Costantino.
Licinio corse a chiudersi a Nicomedia. Sperava forse di poter fronteggiare ancora il rivale, ma, quando seppe che Bisanzio e Calcedonia si erano arrese, ogni sua speranza svanì.
Sua moglie Costanza, sorella di Costantino, ottenne che questi giurasse di lasciare salva la vita al cognato, e Licinio il 23 settembre di quello stesso anno,
si arrese al vincitore, che lo relegò a Tessalonica.
Sei mesi dopo però, accusato, forse a torto, di complottare con i barbari d'oltre il Danubio a danno di Costantino, Licinio veniva messo a morte. La stessa sorte subiva il
generale Martiniano, creato Cesare durante la guerra, e Costantino diventava padrone di tutto l'impero romano che la sua scaltra politica e il suo talento militare avevano
unificato.
IL GOVERNO DI COSTANTINO -
CONCILIO DI NICEA
La vittoria di Costantino su Licinio si può considerare come una vittoria del Cristianesimo sul paganesimo; ma il Cristianesimo, vittorioso per virtù propria e per merito dell' imperatore, attraversava una crisi pericolosissima che minacciava di intaccarne l'unità e la forza.
Un prete alessandrino, ARIO, volendo indagare sulla natura di Cristo, aveva sostenuto che non poteva esserci identità tra le persone della Trinità. Secondo lui soltanto il Padre, cioè il Dio unico, era increato; questi, non della sua sostanza divina, ma dal nulla, aveva creato Cristo non dalla sua sostanza divina ma dal nulla, Cristo era la prima di tutte le creature, ma solo uno strumento del Padre e non eterno come lui.
Quell'eresia pericolosissima era stata aspramente combattuta da Alessandro, vescovo di Alessandria, il quale aveva scomunicato Ario (321), che si 'era poi rifugiato presso il vescovo Eusebio di Nicomedia. Quando Costantino si sbarazzò di Licinio, l'Arianesimo in Oriente si era largamente diffuso ed aveva dato luogo a violenze e disordini.
L'imperatore che aveva in cima ai suoi pensieri l'armonia dei sudditi, intervenne sperando di far cessare le discordie e indisse a Nicea un concilio di vescovi che tenne le sue sedute dal 19 giugno al 25 settembre del 325. Circa trecento vescovi, orientali la maggior parte, accorsero. Il concilio fu presieduto dal vescovo spagnolo Osio, segretario dell' imperatore, e proprio Costantino lo inaugurò con un breve discorso in cui invitava i presenti a trovar l'accordo e la concordia.
Il concilio, anche per le pressioni di Costantino, proclamò l' omousia (uguaglianza di natura) del Padre col Figlio, ma Ario rimase fermo nelle sue opinioni e il famoso concilio niceno che doveva dare l'unità dottrinale alla chiesa rappresentava l'inizio di una lotta senza quartiere che per secoli con la chiesa avrebbe dilaniato l'impero.
Nel 326 Costantino si recò a Roma a celebrarvi i suoi Vicennali; nello stesso anno però fece inorridire la vecchia metropoli per una fosca tragedia che per un momento parve rivivere Roma i tempi di Tiberio e di Nerone. Crispo, il vincitore di Abante e dei Franchi, mandato a Pola per ordine del padre, vi trovò la morte; molti importanti cittadini furono giustiziati o relegati, e fra questi ultimi Lattanzio, il famoso apologista del Cristianesimo; Liciniano, figlio di Costanza e Licinio, ebbe la stessa sorte di Crispo, e Fausta, figlia di Massimiano e seconda moglie dell' imperatore che aveva reso padre di tre figli, fu soffocata anche lei nel bagno. Insomma una strage in famiglia.
Il popolo disse che Fausta aveva accusato Crispo d'incesto e, scopertasi dopo l'innocenza di questo, era stata punita con la morte la fatale calunnia. Ma il racconto del popolo non può appagare la storia. Come spiegare difatti la morte del giovanissimo Liciniano? Forse solo politico fu il movente della tragedia. Se Prisco (e questo era già accaduto fra padre e figlio ai tempi di Massimiano) abbia tentato o no di mettersi contro il padre, alla testa dei malcontenti di Roma, i quali rimproveravano a Costantino la politica filo-cristiana e il fermo proposito di trasportar la capitale a Bisanzio, non lo sappiamo con cetezza. Qualche storico lo pensa, e può anche essere vero, ma tutto fa credere che sia stata Fausta, spinta dal desiderio di togliere ai suoi tre figli un rivale (Crispo, che era figlio della precedente moglie di Costantino) e un rivale potenziale (Liciniano), a far nascere nell'animo del marito sospetti verso il figliastro; sospetti, che, risultati infondati dopo la morte di Crispo, avrebbero esacerbato l'animo del padre sconvolto, a quel che si dice, anche quello della vecchia madre Elena che prediligeva quel nipote e non gli altri e che avrebbero provocata la fatale punizione di Fausta.
La casa di lei, la domus Faustae, che era appartenuta al Laterano, fu da Costantino donata al vescovo di Roma. Fin dalla vittoria su Licinio, Costantino aveva pensato di scegliersi una capitale. Roma non poteva essere la capitale dell' impero costantiniano: la città che era stata il centro del paganesimo non poteva (ma questo sono scritti posteriori cristiani) diventare pacificamente e senza pregiudizio della politica imperiale il centro operante del Cristianesimo.
Altri motivi, e non meno importanti, rendevano Roma inadatta come capitale: essa era troppo lontana dal Danubio e dalle frontiere d'Oriente, che rappresentavano i punti più minacciati dell' impero. Occorreva una città che fosse vicina al Danubio e non lontana dall'Eufrate, in una posizione forte da cui si potesse anche dominare il Mar Nero e tenere le chiavi del Mediterraneo. La scelta di Costantino era caduta su Bisanzio e fin dalla seconda metà del 326 si erano iniziati i lavori per fare di essa una capitale degna di un così grande impero.
La capitale nuova fu inaugurata 1' 11 maggio del 330 ed ebbe il nome ufficiale di Nuova Roma, ma comunemente fu chiamata Costantinopoli. Essa fu la capitale di un impero in cui Cristianesimo e Paganesimo vivevano accanto e il principe, pur rimanendo sempre devoto al dio Sole, adottava come insegna la Croce. La sua ibrida fisionomia cristiano-pagana si leggeva chiaramente nei monumenti: templi pagani, quali quelli a Cibele e alla Fortuna di Roma, e chiese come quelle dedicate agli Apostoli e a Santa Irene, statue a Castoro e a Polluce e la statua alla equivoca divinità cui era devoto Costantino, cioè al Sole Invitto, una immagine che fece sormontare dalla Croce (così accontentava gli uni e gli altri).
Al pari di Roma, Costantinopoli, che sorgeva su sette colli, fu divisa in quattordici regioni, ebbe un Campidoglio, un Palatino, la Curia, il miliare aureo, il Foro, la via Sacra, chiamata trionfale, circhi e teatri, ebbe il diritto italico e le distribuzioni gratuite di grano, vino ed olio che, con le facilitazioni concesse agli immigranti, affollarono la città di plebei oziosi e corrotti.
Costantinopoli fu la capitale di un impero edificato a monarchia assoluta come Diocle-ziano aveva voluto, ma con successione ereditaria. Infatti Cesare era stato Prisco e Cesari erano i tre figli avuti da Fausta.
L'ordinamento civile e militare dell' impero rimase in parte quello di Diocleziano, in parte fu modificato o sviluppato secondo le necessità dinastiche o gli scopi di difesa esterna (barbari) e interna (pronunciamenti).
Sotto Costantino le gerarchie sono numerose e ben definite e tutte fanno capo all'imperatore e sono strumento del suo assolutismo. Alla testa dell' impero è il principe di investitura divina, che i sudditi adorano; immediatamente dopo di lui vengono i suoi consiglieri, i sette mèmbri del concistorium imperiale: il praefectus sacri cubìculi, specie di direttore del servizio privato del principe, il quaestor sacri Palatii che prepara e controfirma le leggi, il magister officiorum, ministro della casa imperiale, che dirige il personale della reggia e gli impiegati dell'amministrazione centrale, il comes sacrarum largitionum, ministro delle finanze dello stato, il comes rerum privatarum, amministratore del patrimonio privato dell' imperatore e i comites domesticorum equitum et peditum, comandanti della guardia d'onore.
Dopo il concistorium, alle cui sedute sovente partecipano, stanno i quattro prefetti del pretorio. Essi non hanno più poteri militari, ma esercitano il potere civile e giudiziario, ciascuno nella propria prefettura. Quattro sono le prefetture: quella d'Oriente con capoluogo Costantinopoli, che comprende cinque diocesi e quarantasei province, quella dell' Illirico con capoluogo Sirmio, comprendente la Pannonia, la Dacia, la Macedonia e la Grecia, undici privince raggruppate in due diocesi, quella dell' Italia — quattro diocesi e quaranta province — formata, oltre che dall'Italia, dalla Rezia, dalle isole mediterranee e dai territori africani tra la Pentapoli Libica e la Mauritania Tingitana, con Milano per capoluogo, e infine la Gallia — tre diocesi e ventinove province con sede del governo a Treveri — comprendente la Gallia transalpina, la Spagna e la Britannia.
Dai prefetti del pretorio dipendono i vicarii delle diocesi e i praesides o consulares o correctores delle province.
Capo supremo dell'esercito è l'imperatore. Sotto di lui stanno quattro magistri militum, ciascuno dei quali ha il comando militare di una prefettura e ai suoi ordini un magister equitum e un magister peditum e un certo numero di duces.
Se l'ordinamento civile è tale da recar vantaggi all'impero, infelice è invece quello militare. Per impedire o reprimere più facilmente le sedizioni Costantino riduce a millecinquecento uomini gli effettivi della legione, indebolendone così l'organismo; crede di semplificare i servizi e di dar maggiore autonomia alle varie armi separando il comando della cavalleria da quello della fanteria e quello tattico da quello logistico e invece toglie organicità e snellezza all'esercito.
Questo è diviso in tre ordini di milizie: milizie palatine (domestici, protectores, scolares), che comprendono un quinto o un sesto di tutti gli effettivi, ricevono una paga maggiore, poltriscono nei capoluoghi delle province e seguono l'imperatore nelle spedizioni più importanti; milizie di linea (comitatenses) che rappresentano la parte migliore dell'esercito, ma sono acquartierate nei piccoli centri dell' interno, dove perdono il loro spirito militare; e da ultimo milizie di confine (riparienses o limitanei), con paghe minori e ferme più lunghe, scaglionate lungo le frontiere.
Il governo di Costantino non fu migliore né peggiore di quello di parecchi altri imperatori: molti atti propri di un governo assoluto, di cui lo accusano gli storici, gli furono imposti dalle difficili condizioni in cui versava l'impero, altri atti, buoni, furono più che un merito suo, una conseguenza dell'evoluzione sociale. Egli difatti fu costretto da un canto ad usare odiose coercizioni per assicurare la riscossione delle imposte e il funzionamento dei servizi pubblici e ad accrescere certe imposte per far fronte alle enormi spese richieste dall'aumentato numero dei funzionari e delle truppe, dall'altro seguì, nei provvedimenti legislativi, l'indirizzo dei tempi e forse il consiglio dei non pochi cristiani che erano alla sua corte.
Sotto due aspetti Costantino è degno d'elogio: egli volle che alla giustizia non si facessero infrazioni e cercò di risanare la circolazione monetaria. Ma sia per l'una che per l'altra cosa bisogna lodarlo solo per la buona volontà che ci ha messo più che per i risultati conseguiti: non mancarono sotto di lui gli abusi dei funzionari dell'amministrazione provinciale, né le cattive monete scomparvero, malgrado la coniazione di alcuni nuovi tipi di buone monete quali i solidi, i miliarensi e le silique.
Nel 322, richiesto di aiuti dai Sarmati, che erano in guerra coi Goti, Costantino mandò contro questi ultimi il figliolo dello stesso nome, che sconfisse i barbari e ricevette in ostaggio il figlio del re Ariarico. Più tardi i Sarmati, scacciati dalla popolazione del paese da loro occupato, ebbero buona accoglienza nel territorio dell' impero e in numero -si narra- di trecentomila furono distribuiti come coloni nella Pannonia, nella Tracia, nella Macedonia e anche in Italia (334).
L'anno 335 segna il fallimento della politica di Costantino.
Egli che tanto aveva lottato per unificare sotto di sé l'impero, ricostituì la tetrarchia, dividendo i territori dell'impero fra i membri della sua famiglia. Tre figlii gli aveva
dato Fausta:
COSTANTINO, COSTANZO e COSTANTE. Al primo diede le Gallie, la Spagna e la Britannia, al secondo le province asiatiche e l'Egitto, al terzo l'Italia, l'Illirico e l'Africa.
A Dalmazio, figlio del fratello, nominato Cesare in questo anno per avere repressa in Cipro una sedizione capitanata da un certo Calogero, assegnò la Tracia, la Macedonia e l'Acaia.
Ma attenzione a questi tre fratelli, fra di loro c'e' già il tarlo dell'onnipotenza. Ognuno di loro vuole imitare il padre, cioè diventare unico padrone assoluto dell'impero
(cesaropapista). Ma non possedendone le qualità, le stanno aggirando iniziando a tramare congiure fra di loro. Ognuno pensa di far fuori l'altro.
Unico imperatore (324-337)
Questo periodo iniziò con una serie di uccisioni, a partire da quella del suo antico rivale Licinio, avvenuta nel 325. L'anno seguente Costantino fece uccidere a Pola il figlio
primogenito Crispo, figlio di Minervina, per una presunta relazione con Fausta e inoltre Liciniano, figlio della sorella Costanza e di Licinio. Quindi venne affogata nel bagno
(riscaldato oltre la temperatura normale) anche la moglie Fausta. La leggenda vuole che Crispo sia stato eliminato in seguito all'accusa di Fausta di averla insidiata, e quindi
anche l'imperatrice venne giustiziata quando Costantino riconobbe l'innocenza del figlio. Probabilmente Fausta volle assicurarsi l'eliminazione dei rivali dei propri figli come
successori di Costantino.
Una nuova capitale: Costantinopoli
Sempre nel 326 erano iniziati i lavori per la costruzione della nuova capitale Nova Roma (Nuova Roma) sul sito dell'antica città di Bisanzio, fornendola di un senato e di uffici
pubblici simili a quelli di Roma.
Il luogo venne scelto come capitale nel 324 per le sue qualità difensive e per la vicinanza ai minacciati confini orientali e danubiani. Inoltre, particolare non secondario,
consentiva a Costantino di sottrarsi all'influenza invadente, arrogante ed irritante degli aristocratici presenti nel Senato romano, che tra l'altro erano per lo più ancora di
religione pagana, a differenza dell'imperatore. La città venne inaugurata nel 330 e prese presto il nome di Costantinopoli. Rispetto alla vecchia città, la nuova era quattro
volte più vasta: dove c'era un'antica porta Costantino pose un foro circolare, inoltre spostò le sue mura più ad occidente di 15 stadi. Proprio qui Costantino si fece battezzare
prima di morire: il suo corpo fu trasferito e seppellito nella chiesa dei Santi Apostoli. La città (oggi Istanbul) resterà poi fino al 1453 capitale dell'Impero bizantino.
a DESTRA: Colonna di Costantino I a Costantinopoli. Sotto di essa l'imperatore avrebbe posto amuleti pagani e reliquie cristiane a protezione della città |

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Amministrazione
Riprendendo la divisione della riforma tetrarchica dioclezianea che prevedeva due Augusti e due Cesari, l'Impero venne ridisegnato e suddiviso in quattro prefetture,
tutte facenti capo ad un unico Imperatore:
- delle Gallie, comprendente la Gallia transalpina, la Spagna e la Britannia;
- d'Italia, comprendente l'Italia, la Sicilia, Sardegna e Corsica, e l'Africa dalle Sirti alla Mauretania Caesariensis;
- d'Oriente, comprendente tutte le province orientali ad eccezione delle isole di Lemno, Imbro e Samotracia, l'Egitto e
la pentapoli di Libia, oltre alla Tracia e la Mesia inferiore;
- d'Illirico, comprendente le province balcaniche, vale a dire dalla Macedonia, alla Tessaglia, a Creta all'Ellade, ai due Epiri, all'Illiria, a
Dacia, Triballia e Mesia superiore, oltre alle Pannonie sino alla Valeria;
All'interno dei queste prefetture mantenne rigidamente separati il potere civile e politico, da quello militare: la giurisdizione civile e giudiziaria
era affidata ad un prefetto del pretorio, cui erano subordinati i vicari delle diocesi ed i governatori delle province. I prefetti furono, quindi, privati in
parte del potere militare,[27] lasciando loro ancora compiti di logistica militare,[28] e diventarono amministratori delle grandi prefetture in cui era diviso l'impero.
Essi svolgevano le seguenti funzioni:
- la suprema amministrazione della giustizia e delle finanze (sostenendo anche le spese militari);
- l’applicazione e, in alcuni casi, la modifica degli editti generali;
- controllo dei governatori delle province, i quali in caso di negligenza o corruzione venivano destituiti e/o puniti;
Inoltre il tribunale del prefetto poteva giudicare ogni questione importante, civile o penale, e la sua sentenza era considerata definitiva,
al punto che neanche gli imperatori osavano lamentarsi della sentenza del prefetto.
Costantino poi controbilanciava l’importanza e la potenza dei prefetti del pretorio con la breve durata della carica. Ogni prefettura, divisa in
tredici diocesi, di cui una (Oriente) era governata da un Conte d'Oriente, un'altra (Egitto) da un Prefetto Augusteo, e le altre undici da altrettanti Vicari o
sottoprefetti, i quali sottostavano all’autorità del prefetto del pretorio. Ogni diocesi era ulteriormente suddivisa in province.
L'apparato burocratico venne snellito e suddiviso tra gli affari della corte, affidati a quattro alti dignitari, e gli affari dello Stato, affidati a tre alti
funzionari: costoro, insieme ai prefetti urbani componevano il Concistorium principis o Sacrum concistorium ("Consiglio del principe" o "Sacro collegio").
I quattro dignitari che regolavano le attività della corte erano:
- il comes rerum privatarum ("ministro degli affari privati"), che si occupava di gestire il patrimonio privato dell'imperatore,
- il praepositus sacri cubiculi ("preposito del sacro cubicolo"), una sorta di gran ciambellano che si occupava della vita della corte
imperiale e da cui dipendevano cortigiani e schiavi,
- due comites domesticorum ("ministro dei domestici"), responsabili l'uno del personale che svolgeva il proprio servizio a piedi e l'altro del personale
a cavallo e della guardia imperiale.
I tre alti funzionari a cui competeva l'amministrazione dello Stato erano:
- il magister officiorum ("maestro degli uffici"), un cancellerie che si occupava dell'amministrazione interna e delle relazioni esterne,
- il quaestor sacri palatii ("questore del sacro palazzo"), con competenza in materia di leggi e di giustizia, che dirigeva inoltre il "Consiglio del principe",
- il comes sacrarum largitionum ("ministro delle sacre elargizioni"), che si occupava delle materie finanziarie statali.
La politica amministrativa di Costantino è controversa e in particolare è stata aspramente criticata dallo storico illuminista Edward Gibbon, autore di
Storia del declino e della caduta dell'Impero romano (opera composta tra il 1776 ed il 1788), che dà di Costantino un giudizio estremamente negativo. Per Gibbon al
tempo di Costantino: si istituì un poderoso sistema burocratico, coniando cariche sconosciute in antecedenza (magnifico, illustre, conte, duca, ecc.), tali da creare
un controllo vessatorio e di spionaggio su tutte le province; i pretoriani erano in numero spropositato ed erano di origine armena, con corazze di argento e d'oro; la
capitale trasferita da Roma a Costantinopoli (depredando importanti opere di Fidia ed altri scultori della Grecia classica) accentuò l'emarginazione del Senato romano;
la tassazione esorbitante finì per spopolare anche una delle regioni (Campania) più produttive dell'Italia; si accentuò, inoltre, la disgregazione dell'esercito romano,
sia con la nomina di barbari al massimo comando militare, sia con la penalizzazione economica dei soldati che salvaguardavano il confine (limes) dalle invasioni.
Complessivamente, per Gibbon, neppure Caligola o Nerone fecero più danni all'impero di Costantino.
POLITICA ESTERA E FRONTIERE.
Già ai tempi in cui era stato Cesare in Occidente, attorno agli anni 306-310, Costantino ottenne grandi successi militari su Alemanni e Franchi, di cui si dice riuscì a
catturare i loro re, dati in pasto alle belve durante i giochi gladiatorii.
Divenuto unico augusto in Occidente nel 313 respinse una nuova invasione di Franchi in Gallia. Dopo una prima crisi con Licinio, al termine della quale i due augusti trovarono
un nuovo equilibrio strategico nel 317, ottenne nuovi successi contro le genti barbare lungo il Danubio. Egli, infatti, batté sia i Sarmati Iazigi nel 322 sia i Goti nel 323.
Dopo il 316/317, avendo ottenuto da Licinio anche l'Illirico, Costantino non solo respinse numerose incursioni di Sarmati Iazigi e Goti (tra gli anni 322 e 332), ma potrebbe
aver dato inizio alla costruzione di due nuovi tratti di limes: il primo nella pianura ungherese chiamato diga del Diavolo, formato da una serie di terrapieni che da Aquincum
collegavano il fiume Tibisco, per poi piegare verso sud e collegare il fiume Mure, percorrere il Banato fino al Danubio all'altezza di Viminacium; il secondo nella Romania
meridionale chiamato Brazda lui Novac, che correva parallelo a nord del basso corso del Danubio, da Drobeta alla pianura della Valacchia orientale fin quasi al fiume Siret.
Divenuto unico augusto nel 324, affidò ai figli la difesa dell'Occidente contro Franchi ed Alamanni (contro i quali ottenne nuovi successi nel 328 ed il titolo di Alamannicus
maximus, insieme a Costantino II) mentre lui stesso combatteva sul confine danubiano i Goti (332) e i Sarmati (335). Divise l'impero tra i figli assegnando a Costantino II Gallia,
Spagna e Britannia, a Costanzo II le province asiatiche, l'Oriente e l'Egitto e a Costante I l'Italia, l'Illirico e le province africane. Alla sua morte nel 337 si preparava ad
affrontare in Oriente i Persiani.
Costantino nei suoi oltre trent'anni di regno aveva aspirato a riconquistare, non solo tutti i territori appartenuti all'Impero di Traiano, ma soprattutto a diventare
il protettore di tutti i Cristiani anche oltre le frontiere imperiali. Egli, infatti, costrinse molte delle popolazioni barbariche sottomesse a nord del Danubio, a sottoscrivere
clausole religiose dopo averle battute più e più volte, come nel caso dei Sarmati e dei Goti. Identica sorte sarebbe toccata al regno d'Armenia ed ai Persiani se non fosse morto
nel 337.
COSTANTINO E LA CHIESA - MORTE DI COSTANTINO
Costantino aveva fino allora favorito la chiesa cattolica contro i Donatisti e gli Ariani; ma l'Arianeaimo non aveva disarmato, anzi era riuscito a penetrare nella corte e a guadagnarsi il favore dell' imperatore. Costantino cercò di ridare unità alla chiesa conciliando Cattolici ed Ariani, ma trovò un grandissimo ostacolo nel battagliero Atanasio vescovo di Alessandria, che con la sua opposizione fece schierare questa volta Costantino dalla parte ariana, la quale diventò così potente che nel concilio di Tiro (335) fece condannare Atanasio.
Era la vittoria dell'Arianesimo in Oriente e la sconfitta della politica religiosa (a dire il vero molto ambigua, opportunistica) di Costantino, il quale, anziché pacificare gli animi dei Cristiani, apriva, con il favorire la parte che proprio lui prima aveva avversata, un periodo di nuove e più aspre lotte in seno alla Chiesa.
Al nuovo Concilio cioè le cose non cambiarono, anzi peggiorarono, infatti Costantino piu' che ascoltare i sacrilegi e le eresie che venivano elencate e le dispute teologiche che si erano svolte già in un Concilio a Gerusalemme, ascoltò le accuse politiche rivolte ad Atanasio. Accuse che definivano Atanasio un perturbatore dello Stato. E questo gli bastava!
Costantino voleva la pace, l'unita' politica, il vasto consenso, e visto che Atanasio era un uomo di grande energia e passionalità tanto da sembrare un ribelle (e proprio per questo dopo Gerusalemme ormai contava a Costantinopoli poche simpatie nel numeroso partito teologico ariano che si era formato nel Palazzo) preferì non giudicare ma ascoltare le pesanti accuse di carattere politico che i vescovi rivolgevano ad Atanasio.
Non dimentichiamo che dei 300 vescovi che nel 325 a Nicea avevano condannato la dottrina di Ario, era rimasto solo Atanasio (ortodosso) sulle sue posizioni, mentre gli altri -tutti- avevano fatto atto di apostasia e accettarono, rinnegando la sua tesi, pur di dar ragione all'imperatore.
A Costantino non era certo sfuggito il voltafaccia, ma lui era un uomo politico non di chiesa, e guardava ai numeri del consenso politico e non alla sostanza teologica. Infatti si lamento' proprio con Eusebio (ormai capo indiscusso degli Ariani) affermando che i vescovi e quindi anche i colleghi di Eusebio, avevano votato la sua tesi di condanna ad Atanasio "solo per piaggeria" e che delle tesi giuste o sbagliate che fossero non gli importava proprio niente a nessuno. (nel riportarci queste cose, Eusebio è forse onesto, ma un po' ipocrita. In tutto il libro ci parla del concilio di Nicea e del sinodo di Tiro senza mai nominare l'eretico Ario nè l'ortodosso Atanasio).
Di dispute ce ne saranno ancora e la Chiesa Orientale non riconoscerà mai il primato di Roma; la prima si andrà distinguendosi sempre di più non solo nelle usanze e nelle forme di culto differenti, ma farà dilagare in Oriente, la cosiddetta CHIESA GRECA usata poi in occidente per indicare tutte le Chiese Orientali, fra cui la ORTODOSSA in senso stretto, la ABISSINIA, la NESTORIANA, la SIRIACA, la ARMENA, la COPTA. Tutte Chiese che si proclamarono poi tutte "Chiese ortodosse". Tutte nate perchè non tollerarono il "cesaropapismo" post-costantiniano .
Alla fine fra quella Cattolica e la Ortodossa conteremo 5 grandi correnti e 52 Chiese.
Sugli ultimi anni della sua vita Costantino preparava una grande guerra contro la Persia, di cui era re Shapur II. Questi aveva tolto dal trono dell'Armenia Tiridate, che nel 332 aveva abbracciato il Cristianesimo; l'imperatore, per tutta risposta, aveva dato l'Armenia al fratello di Dalmazio, Annibaliano, che era stato creato Re dei Re. Questi avvenimenti erano stati seguiti da una richiesta persiana che rappresentava la rottura definitiva dei rapporti tra il regno dei Sassanidi e l'impero: Shapur voleva le cinque provincie oltre il Tigri cadute sotto il vassallaggio romano al tempo di Diocleziano.
La guerra era inevitabile, ma Costantino, pur non essendo vecchio, era ammalato. Da Costantinopoli, dove aveva celebrata la Pasqua del 337, si era recato, per cura, a Drepano in Asia Minore. Aggravandosi il suo male, l'imperatore si mise sulla via del ritorno, ma non riuscì a rivedere la capitale nuova che doveva passare ai secoli col il suo nome : il 22 maggio di quell'anno morì ad Ancirona, nelle vicinanze di Nicomedia. Dicesi (ma lo scrive solo il suo panegirista Eusebio) che sul letto di morte ricevesse il battesimo.
Eusebio è solo lui a raccontarci queste cose, e nella stesura della sua Storia di Costantino, ci narra che giunta a questa sua ultima ora Costantino gli disse " bando alle ambiguità, battezzami ". Ma la sua storia è un panegirico a Costantino, quindi è da prendersi con beneficio di inventario.
Malgrado il suo interessato appoggio alla cristianità, pare che Costantino sia invece rimasto fedele, sino all'ultimo giorno al culto del dio Sole. Ma se la storia del battesimo narrataci da Eusebio la vogliamo credere vera, allora Costantino è morto eretico perchè Eusebio era vescovo della setta ariana.

Sopra: le frontiere romane settentrionali ed orientali al tempo di Costantino, con i territori acquisiti nel corso del trentennio di campagne militari (dal 306 al 337). La mappa
qui sopra rappresenta anche il mondo romano poco dopo la morte di Costantino (337), con i territori "spartiti" tra i suoi tre figli (Costante I, Costantino II e Costanzo II)
ed i due nipoti (Dalmazio e Annibaliano).
Sotto: Mappa della ex-Dacia romana con il suo complesso sistema di fortificazioni e difesa. In grigio la cosiddetta diga del Diavolo ed a destra (in verde) il Brazda lui Novac, di
epoca costantiniana.

Riforma costantiniana dell'esercito romano.
Le prime vere modifiche apportate da Costantino nella nuova organizzazione dell'esercito romano, furono effettuate subito dopo la vittoriosa battaglia di Ponte Milvio contro il
rivale Massenzio nel 312. Egli infatti sciolse definitivamente la guardia pretoriana ed il reparto di cavalleria degli equites singulares e fece smantellare l'accampamento del
Viminale. Il posto dei pretoriani fu sostituito dalla nuova formazione delle schole palatine, le quali ebbero lunga vita poi a Bisanzio ormai legate alla persona dell'imperatore
e destinate a seguirlo nei suoi spostamenti, e non più alla Capitale.
Una nuova serie di riforme furono poi portate a termine una volta divenuto unico Augusto, subito dopo la sconfitta definitiva di Licinio nel 324. La guida dell'esercito fu
sottratta
ai prefetti del pretorio, ed ora affidata a: il magister peditum (per la fanteria) ed il magister equitum (per la cavalleria). I due titoli potevano tuttavia essere riuniti in una
sola persona, tanto che in questo caso la denominazione della carica si trasformava magister peditum et equitum o magister utriusque militiae (carica istituita verso la fine del
regno, con due funzionari praesentalis). I gradi più bassi della nuova gerarchia militare prevedevano, oltre ai soliti centurioni e tribuni, anche i cosiddetti duces, i quali
avevano il comando territoriale di specifici tratti di frontiera provinciale, a cui erano affidate truppe di limitanei. Costantino, inoltre, sempre secondo Zosimo, rimosse dalle
frontiere la maggior parte dei soldati e li insediò nelle città (si tratta della creazione dei cosiddetti comitatensi):
« ...città che non avevano bisogno di protezione, privò del soccorso quelle minacciate dai barbari [lungo le frontiere] e procurò alle città tranquille il danno generato dalla
soldataglia, per questi motivi molte città risultano deserte. Lasciò anche che i soldati rammollissero, frequentando i teatri, ed abbandonandosi alla vita dissoluta. »
(Zosimo, Storia nuova, II, 34.2.)
Nell'evoluzione successiva il generale in campo svolse sempre più le funzioni di una sorta di ministro della guerra, mentre vennero create le cariche del magister equitum
praesentalis e del magister peditum praesentalis ai quali veniva affidato il comando effettivo sul campo.
Monetazione
Nel 309-310 Costantino introdusse una riforma monetaria, necessaria anche per fare fronte alla scarsità di monete d'oro. Venne, quindi, introdotto il solidus d'oro, con un peso di
4,54 g pari a 1/72 di libbra, cioè più leggero (anche se più largo e sottile) dell'aureo, che in quel momento valeva 1/60 di libbra. Si ritornò inoltre al sistema bimetallico di
Augusto coniando la siliqua d'argento, di 2,27 g pari a 1/144 di libbra: il miliarense, con un valore doppio della siliqua, aveva quindi lo stesso peso del solidus. Per quanto
riguarda i bronzi, il follis, ormai fortemente svalutato, venne sostituito da una moneta di 3 g, detto nummus centonionalis, cioè 1/100 di siliqua.
Fu una riforma duratura, tanto che il peso aureo del solido introdotto con la riforma di Costantino rimase invariato per secoli anche durante l'impero bizantino. Ma a livello
sociale le conseguenze furono catastrofiche: tutti coloro che non avevano accesso alla nuova moneta d'oro, infatti, dovettero subire le conseguenze dell'inflazione, a causa di
una svalutazione rispetto al solidus delle altre monete d'argento e di rame, che non erano più protette dallo Stato. Il risultato fu una insuperabile spaccatura tra una minoranza
privilegiata di ricchi e la massa dei poveri.
Moneta di Costantino, con una rappresentazione del Sol Invictus e l'iscrizione SOLI INVICTO COMITI, "al Sole Invitto compagno"
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Moneta di Costantino (ca.327) con la rappresentazione del monogramma di Cristo sopra il labaro imperiale.
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