Giuseppe Pignatale Presenta:
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Storia contemporanea:
GLI AVVENIMENTI DEL 1859-60.
Dal 1859 al 1860 si ebbero gli avvenimenti che portarono all'unificazione di gran parte dei territori italiani......
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II grido di dolore.
L'alleanza franco-piemontese escludeva l'unificazione dell'Italia sotto la monar- chia sabauda, perché la nascita di una nuova grande Potenza nel Mediterraneo sarebbe stata contraria agli interessi della Francia. Essa si proponeva la cacci- ata degli austriaci dal suolo italiano e l'estensione del Regno di Sardegna a tutta l'Italia settentrionale. Questo per il momento bastava. Al resto, come pensavano Vittorio Emanuele e il suo ministro, si sarebbe prov- veduto in seguito.
Che la guerra all'Austria fosse ormai imminente apparve subito manifesto fin dall'inizio del 1859. Infatti il primo gennaio Napoleone, rispondendo agli auguri del corpo diplomatico, disse all'ambasciatore austriaco: " Mi dispiace che le nostre relazioni col vostro governo non siano così buone come nel passato; ma vi prego di dire al vostro imperatore che i mici sentimenti personali per lui non sono cambiati."
Lc parole, che contenevano una velata minaccia di guerra, destarono profonda impressione in tutta l'Europa.
A rendere più palese questa minaccia, il giorno dieci del mese di gennaio del 1859 Vittorio Emanuele, pronunziando in parlamento l'annuale Discorso della Corona, disse: " Confortati dal- l'esperienza del passato andiamo risoluti incontro alle eventualità dell'avvenire. Questo avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà e della patria. Il nostro paese piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli d'Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché nel mentre rispettiamo i trattati non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi. Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della divina Provvidenza." Con queste parole, pronunciate in mezzo all'entusiasmo più vivo, si annunciava che il Piemonte intendeva intervenire per la liberazione degli Italiani oppressi.
La notizia che questo grido di dolore era stato raccolto da Vittorio Emanuele si propagò come un lampo per tutta la Penisola, confermando
le speranze e l'ansiosa attesa dei patrioti italiani.
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C. Bossoli: Vittorio Emanuele Il lascia l'aula dal Senato dopo il discorso dalla Corona - 10 gennaio 1859 - (Torino, Museo dei Risorgimento).
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Da ogni parte cominciarono ad affluire volontari; Garibaldi, venuto a Torino da Caprera, organizzò il corpo di Cacciatori delle Alpi. L'Austria da parte sua, preoccupata di questi preparativi ai suoi danni, mandò nel Lombardo-Veneto nuove forze militari.
A questo punto Napoleone III, cedendo alle pressioni dell'Inghilterra e della Russia che erano contrarie alla guerra, accettò la proposta di convocare una Conferenza internazionale per risolvere pacificamente la questione italiana; ma la proposta, che minacciava di distruggere tutta l'azione diplomatica del Cavour, non ebbe seguito per colpa dell'Austria, la quale subordinò la convocazione della Conferenza al preventivo disarmo del Piemonte.
Senza neppure consultarsi con le altre potenze, il 23 aprile essa mandò al Re di Sardegna un ultimatum, col quale gli intimava, entro tre giorni, il licenziamento di tutti i volontari raccolti in Piemonte e la riduzione dell'esercito sardo allo stato di pace.
Era la condizione tanto attesa dal Cavour: poiché il Piemonte veniva attaccato dall'Austria, Napoleone era tenuto, secondo i patti, ad accorrere immediatamente in suo aiuto.
L'ultimatum dell'Austria fu respinto dal governo di Torino il 26 aprile, e subito i reggimenti piemontesi partirono per la guerra.
La seconda guerra d'indipendenza (aprile-giugno 1859).
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II 29 aprile il generale Gyulai, comandante in capo delle truppe austriache, varcò il Ticino ed invase il Piemonte, sperando di raggiungere e di battere l'esercito piemontese; chc si era concentrato fra Casale e Alessandria, prima dell'arrivo dei Francesi. Ma la sua marcia venne ostacolata dall'allagamento della pianura tra Vercelli e Pavia prodotto dalla rottura degli argini delle risaie.
Questo ritardo consentì alle truppe di Napoleone III, che erano arrivate in parte per il Moncenisio e in parte per mare con sbarco a Genova, di congiungersi con l'esercito di Vittorio Emanuele.
Allora il Gyulai, convinto che Napoleone avrebbe tentato di attraversare il Po a Piacenza per entrare in Lombardia, si diresse verso la linea del Po e fu sconfitto per la prima volta da reparti franco-piemontesi a Montebello (20 maggio).
Napoleone invece, servendosi della ferrovia Alessandria-Casale-Novara, si portò al Ticino e lo attraversò per il ponte di Buffalora, mentre Vittorio Emanuele attaccava e vinceva il nemico a Palestro (31 maggio). In questa battaglia il re sabaudo combatté personalmente tra le prime file e dimostrò un tale coraggio che gli zuavi francesi entusiasti lo proclamarono loro caporale.
Gli Austriaci ritornarono in tutta fretta in Lombardia per tentare di arrestare la marcia dei franco-piemontesi
su Milano, ma furono nuovamente sconfitti a Magenta (4 giugno) e costretti a ripiegare verso il Quadrilatero.
II giorno 8 giugno Vittorio Emanuele e Napoleone entrarono solennemente in Milano in mezzo alla commozione e al giubilo del popolo,
finalmente liberato, questa volta per sempre, dal dominio austriaco.
Frattanto Garibaldi era penetrato coi suoi Cacciatori delle Alpi nella regione dei Laghi Lombardi, sconfiggendo il nemico a Varese e a
S. Fermo e liberando la città di Como, e già si inoltrava nella Valtellina col proposito di scendere nel Trentino atuavetso il valico del
Tonale per tagliare agli Austriaci l'eventuale ritirata.
La fase risolutiva delle operazioni si concluse con una sola grande battaglia campale combattuta dagli eserciti franco-piemontesi affiancati: i Francesi attaccarono il nemico a Solferino, i Piemontesi a S. Martino, presso la riva meridionale del Garda (24 giugno). Al comando dell'esercito austriaco era lo stesso imperatore Francesco Giuseppe. La lotta si protrasse durissima per tutto il giorno. Ma a sera le due alture erano tenute saldamente dai Francesi e dai Piemontesi, mentre le truppe austriache riparavano scoraggiate dietro la linea del Mincio.
Tutti in Italia attendevano che si spingesse innanzi l'offensiva per la liberazione del Veneto, quando all'improvviso si propagò la notizia che Napoleone III aveva concluso a Villafranca un armistizio con l'imperatore Francesco Giuseppe. Ai nostri patrioti ciò parve un tradimento. Il Cavour voleva che Vittorio Emanuele non accettasse l'armistizio e continuasse la guerra per conto suo; ma il Re non accolse il suggerimento, e il suo ministro diede le dimissioni. I motivi che indussero Napoleone a non rispettare i patti dell'alleanza furono molteplici: egli aveva intrapreso la guerra di sua iniziativa e contro la volontà della maggior parte dei Francesi, e dopo la giornata di Solferino ebbe paura che la notizia del sangue francese sparso in Italia potesse provocare in Francia una rivoluzione contro di lui; vedendo che i popoli tedeschi si dimostravano solidali con l'Austria, temeva un improvviso attacco della Prussia dalla parte del Reno; era preoccupato che la guerra sconfinasse nel territorio dello Stato Pontificio, e tale eventualità gli avrebbe alienato gli animi dei cattolici francesi, sul favore dei quali poggiava in massima parte la stabilità del suo impero.
L'armistizio di Villafranca fu seguito dalla Pace di Zurigo (10 novembre), con la quale l'Austria cedette la Lombardia a Napoleone III, il quale a sua volta la cedette a Vittorio Emanuele II.
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Sopra: il teatro della Seconda Guerra d'Indipendenza.
Sotto: C.Bossoli: l'esercito sardo passa il Sesia a Vercelli - 30 maggio 1859.

RIFLESSIONI.
La battaglia di Solferino e San Martino fu la più lunga (dalle 12 alle 14 ore di combattimento) e la più sanguinosa combattuta per
l'indipendenza e l'unità d'Italia e superò per quoziente di perdite la pur cruenta battaglia di Waterloo.
Gli austriaci persero 14000 uomini e 8000 vennero presi prigionieri, i franco-piemontesi 15000 e 2000 prigionieri; questa carneficina
sembra aver indotto Napoleone III a firmare l'armistizio di Villafranca, con questo atto concludendo di fatto la seconda guerra
d'indipendenza. Rimangono a ricordo i due ossari contenenti i teschi e gli scheletri dei soldati dei due eserciti opposti che immolarono
la loro vita a difesa di principi opposti:
gli imperialisti per tutelare i valori dell'assolutismo e dall'altra coloro che ritenevano più importanti i valori di libertà, uguaglianza.
Ciò che sconcerta i visitati dei due ossari che i testi dei soldati morti in battaglia sembrano tutti uguali indipendentemente della loro
nazionalità. Occorre precisare che molti morirono per le semplici ferite riportate perchè si usava "bagnare" nello sterco le baionette.
Accadeva spesso quindi come il giovane Mameli, difensore della Repubblica Romana, ferito nel tafferuglio per sbaglio da un commilitone,
che le ferite infette portassero alla morte.
Sotto: l'ossario della Battaglia di Solferino.
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Sotto: l'ossario della Battaglia di S.Martino.

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Le rivoluzioni, i plebisciti e le annessioni.
Quando la notizia della guerra tra il Piemonte e l'Austria giunse in Toscana, i patrioti di quella regione chiesero al granduca Leopoldo II di allearsi col Piemonte; al suo rifiuto, essi lo cacciarono da Firenze e vi costituirono un governo provvisorio. Questo mandò una delegazione a Vittorio Emanuele per offrirgli l'annessione della Toscana al Piemonte; ma il Re non poté accettarla, per i patti che lo legavano a Napoleone III, ed acconsentì soltanto a prendere la Toscana sotto la sua protezione.
Contemporaneamente insorsero Parma, Modena, Bologna e tutta la Romagna: i Duchi e i Legati Pontifici furono costretti a fuggire, e dappertutto si formarono governi provvisori in nome di Vittorio Emanuele. Questi accettò l'annessione di Modena, il cui Duca si era alleato con l'Austria; invece alle altre città accordò provvisoriamente la sua protezione, rimandando alla fine della guerra ogni decisione circa la loro annessione al Piemonte. Dalla Romagna la rivoluzione si propagò alle Marche e all'Umbria, e anche colà i Legati Pontifici dovettero abbandonare le loro sedi; ma ben presto intervennero truppe mercenarie pontificie, che riassoggettarono quelle terre e in alcuni luoghi si abbandonarono a violente repressioni. La facilità con cui le rivoluzioni popolari avevano trionfato e l'unanimità con cui da ogni parte si chiedeva l'annessione al Piemonte avevano vivamente allarmato Napoleone, aprendogli gli occhi sulle reali intenzioni degli Italiani: essi non si accontentavano dell'indipendenza dall'Austria, ma volevano anche il Regno d'Italia.
La constatazione di questa realtà, contraria ai suoi propositi e ai suoi interessi, contribuì certamente, insieme con le altre considerazioni sopra esposte, ad indurlo a non rispettare i patti dell'alleanza e a concludere la guerra prima della liberazione del Veneto.
Al convegno di Villafranca e poi a quello di Zurigo egli si trovò pienamente d'accordo con l'imperatore austriaco sulla necessità di stabilire il ritorno dei principi spodestati nei loro Stati.
Vittorio Emanuele fu allora costretto a richiamare i suoi commissari dalla Toscana, dai Ducati e dalla Romagna. Ma essi, con l'appoggio delle popolazioni e col segreto consenso dello stesso Re, trasformarono i governi provvisori in dittature e si prepararono ad opporsi con la forza all'attuazione delle deliberazioni del trattato di pace. Per fortuna, in quei giorni ritornò al governo il Cavour, che con la sua abile azione diplomatica riuscì a risolvere il problema delle annessioni secondo le aspirazioni degli Italiani e nell'interesse della monarchia sabauda. Appoggiato dall'Inghilterra che desiderava sottrarre all'influenza francese la nuova Potenza sorgente nel Mediterraneo, egli vinse le più gravi opposizioni internazionali appellandosi al diritto dei popoli di decidere del proprio destino.
Infatti i plebisciti, indetti in Toscana, nei Ducati e in Romagna nel marzo del i86o, avevano dato la quasi unanimità dei voti in favore dell'unione di quelle regioni al Regno di Sardegna.
Le ultime perplessità di Napoleone III furono superate con la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, sebbene l'Imperatore non avesse mantenuto gli impegni di Plombières.
Così la Lombardia, l'Emilia, la Romagna e la Toscana passarono sotto la corona di Vittorio Emanuele II, e il 2 aprile i86o a Torino si inaugurò il Parlamento dell'Italia settentrionale e centrale.
L'inutile tentativo repubblicano del Pisacane nel Regno delle due Sicilie.
Nel Regno delle Due Sicilie, dopo la restaurazione dell'assolutismo e la sottomissione della Sicilia da parte di Ferdinando II, il Mazzini e i suoi seguaci avevano intensificato molto la propaganda repubblicana, convertendo numerosi patrioti alla loro causa. Un tentativo insurrezionale per l'instaurazione di una Repubblica democratica nell'Italia meridionale, fatto nel 1857 da Carlo Pisacane e da Giovanni Nicotera, era fallito sul nascere. Insieme con ventisei compagni essi si erano imbarcati a Genova su un piroscafo diretto in Tunisia. Impadronitisi dei piroscafo durante la navigazione, avevano fatto scalo nell'isola di Ponza per liberare alcune centinaia di detenuti, e con quelli erano sbarcati a Sapri, nel golfo di Policastro, tentando di sollevare popolazione al grido di " Viva la Repubblica" Nessuno però si era mosso, anzi la popolazione, convinta che si trattasse di una banda di briganti, aveva aiutato la polizia borbonica a catturarli: il Pisacane e alcuni compagni erano caduti in combattimento, gli altri erano stati presi e condannati all'ergastolo.
La spedizione dei "Mille" in Sicilia.
Negli ultimi tre anni aveva avuto maggiore successo, specialmente in Sicilia, la propaganda della Società Nazionale, che aveva guadagnato molte adesioni all'idea unitaria nazionale sotto la monarchia sabauda.
Nel 1860, dopo l'inaugurazione a Torino del Parlamento dell'Italia settentrionale e centrale, l'unificazione di tutta l'Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele era sentita anche nel Regno delle Due Sicilie come un evento ormai certo e prossimo.
Sul trono di Napoli sedeva già da un anno il giovane Francesco I, chiamato
bonariamente dai Napoletani " Franceschiello ", il quale non aveva né l'esperienza né la capacità necessarie a difendere il Regno in tempi per lui tanto calamitosi.
Perciò il i86o sembrava l'anno più propizio per tentare l'impresa della liberazione del Regno delle Due Sicilie dal dominio borbonico e della sua unione al Regno di Vittorio Emanuele. Questo dissero i siciliani Rosolino Pilo e Francesco Crispi a Giuseppe Garibaldi, col quale si incontrarono a Torino per proporgli di assumerne la direzione.
Garibaldi dichiarò di essere pronto a condurre una spedizione armata per liberare la Sicilia e l'Italia meridionale, purché fosse sicuro che la liberazione avvenisse nel nome di Vittorio Emanuele. Questi a sua volta, sebbene il suo ministro diffidasse in generale delle imprese arrischiate e temesse nel caso particolare l'insorgere di complicazioni internazionali, si dimostrò favorevole all'impresa; ma disse che egli non poteva appoggiarla apertamente né consentire che vi partecipassero truppe regolari, perché doveva evitare il rischio di ogni possibile intervento straniero: essa perciò doveva apparire come opera esclusiva di volontari, organizzata e condotta a sua insaputa. Garibaldi allora si trasferì a Genova per attendere a raccogliere uomini, armi e mezzi necessari all'impresa. In pochi giorni si radunarono intorno a lui 1076 volontari, pieni di entusiasmo per l'impresa avventurosa e pronti a morire per l'unità d'Italia.
Prima di decidere la partenza, Garibaldi volle però essere certo di poter contare, sbarcando in Sicilia, sull'aiuto sicuro della popolazione. Di questo si incaricò Rosolino Pilo, ritornando clandestinamente nell'isola. Proprio in quei giorni un moto insurrezionale era scoppiato a Palermo per opera dello stagnino Francesco Riso, ma non aveva avuto successo: gli insorti, asserragliati nel convento francescano della Gancia, erano stati facilmente sopraffatti dai gendarmi borbonici. II Pilo allora si rivolse ai centri minori e alle campagne, e si adoperò a mantenere vivo nel popolo siciliano lo spirito di rivolta sino all'arrivo dei liberatori.
La sera del 5 maggio Garibaldi si impadronì di due piroscafi ancorati nel porto
di Genova, il Piemonte e il Lombardo, appartenenti alla società di navigazione Rubattino. Su quelli allo scoglio di Quarto imbarcò i suoi Mille, e all'alba del 6 maggio salpò per la Sicilia: egli comandava il Piemonte, il suo aiutante Nino Birio il Lombardo.
I garibaldini da Marsala a Napoli.
II 7 maggio il Piemonte e il Lombardo si fermarono a Talamone, sulla costa toscana, per caricare armi e munizioni prese nel forte di Orbetello; quindi proseguirono la rotta verso la Sicilia.
Elusa la sorveglianza della flotta borbonica che incrociava nel Tirreno, il giorno 11 maggio le due navi gettarono le ancore nella rada di Marsala. Avevano appena cominciato lo sbarco, quando sopraggiunsero alcuni incrociatori nemici, che aprirono il fuoco ed affondarono il Lombardo.
Lo sbarco dei Mille poté avvenire per l'intervento del comandante di alcune navi inglesi alla fonda nel porto di Marsala, il quale fece sospendere il bombardamento col pretesto che esso danneggiava certi edifici di proprietà britannica. Da Marsala la colonna si diresse verso Palermo. Giunta a Salemi, Garibaldi emanò un proclama nel quale dichiarava di assumere la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele (14 maggio).
Il giorno dopo a Calatafimi i Mille si scontrarono per la prima volta con reparti borbonici quattro volte superiori di numero. La
battaglia fu ardua, ma al grido di Garibaldi " Qui si fa l'Italia o si muore! ", la piccola schiera di volontari, scarsamente
armata ma sostenuta dall'invincibile forza del sentimento patriottico, ebbe ragione delle soldatesche borboniche.
Con questa vittoria i filibustieri, com'erano chiamati i Mille nei giornali ufficiali borbonici, si acquistarono la fama di
essere invincibili, e Garibaldi nell'accesa fantasia degli isolani apparve come l'eroe invulnerabile protetto da Dio per mezzo
dei suoi angeli.
Subito dopo, ad ingrossare le file dei Garibaldini, cominciarono ad accorrere i volontari isolani, i così detti picciotti, condotti
da Rosolino Pilo, da Giuseppe La Masa e da altri patrioti, i quali ardevano dal desiderio di dare il loro contributo di valore e di sangue
all'unificazione della patria.
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Sopra: C.Bossoli: sbarco delle truppe francesi nell'aprile del 1859.
sotto: G.Fattori: sul campo di battaglia di Magenta.


Sopra: Napoleone III a Solferino.
Sotto: la firma del trattato di Zurigo.


Sopra: il Cavalier Farini presenta a Vittorio Emanuele II l'atto di annes- sione dell'Emilia al Piemonte.
Sotto: Garibaldi a Caprera.


Garibaldi con i Mille a Quarto.
Sotto: battaglia di Calatafimi.

Ippolito Nievo

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Ippolito Nievo: il lato oscuro della spedizione dei Mille.
Non tutti sanno che le guerre si fanno anche col denaro tanto che c'è un detto francese: "L'argent fait la gherre" - il denaro fa la
guerra.
Ora, Ippolito, data la sua onestà era il cassiere della Spedizione dei Mille e in pratica l'uomo di fiducia di Garibaldi.
La cassa valori posta sotto il controllo del Nievo, conteneva denaro raccolto in precedenza anche in Francia e in Inghilterra a cui
partecipò anche Mazzini.
Quando i Mille sbarca-
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rono a Talamone, le armi, caricate sui velieri, furono pagate. Ora il Nievo trascriveva su quaderni i pagamenti effettuati.
Ora accadde, durante la spedizione dei Mille, che i liberali moderati, azionarono la macchina del fango anche spesso sul Nievo.
Poi in Sicilia, molti baroni si recavano da Garibaldi a chiedere favori a cui il generale rispondeva positivamente e il Nievo obbeviva
riportando le richieste su registri.
Avendo ricevuto l'incarico di riportare dalla Sicilia i documenti amministrativi della spedizione, trovò la morte durante la
navigazione da Palermo a Napoli, nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1861, nel naufragio del vapore Ercole avvenuto al largo della
costa sorrentina in vista del golfo di Napoli. Nel naufragio tutte le persone imbarcate perirono e né relitti né cadaveri furono
restituiti dal mare.
Le circostanze misteriose del naufragio alimentarono ipotesi di un complotto politico. Nel romanzo "Il prato in fondo al mare" edito da
Mondadori nel 1974, autore il pronipote Stanislao Nievo, il drammatico evento viene rappresentato come "una sospetta strage di Stato
italiana, maturata dalla Destra e decisa dal potere piemontese per liquidare la Sinistra garibaldina: "strage" con la quale si sarebbe
aperta la storia dell'Italia unita". In pubblicazioni successive sono state avanzate altre ipotesi all'origine dell'eventuale attentato
come il ruolo giocato da finanziamenti internazionali, in particolari inglesi, indirizzati a favorire la spedizione dei Mille-
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Quindi Garibaldi fece una finta ritirata verso Corleone, inducendo il nemico a mandare colà
due grosse colonne al suo inseguimento. Egli invece, dopo aver fatto un largo giro tra i monti, si congiunse a Gibilrossa coi picciotti del La Masa, e comparve improvvisamente davanti a Palermo, che era difesa da circa i5.ooo uomini comandati dal generale Lanza.
L'assalto alla città da parte dei Garibaldini ebbe inizio il 27 maggio e prosegui ininterrottamente fino al 6 giugno. Le truppe regie furono cacciate di strada in strada, finché il generale Lanza fu costretto ad abbandonare Palermo e ad imbarcarsi coi suoi soldati per Napoli.
Intanto giungevano a Garibaldi dal Piemonte nuovi aiuti di uomini, di armi e di mezzi, che erano stati raccolti dalla Società Nazionale, mentre aumentavano lo scoraggiamento e le defezioni nell'esercito borbonico. Questo fu defnitivaniente sconfitto il 20 luglio a Milazzo, sulla via da Palermo a Messina, e cacciato da tutta l'isola.
II zo agosto i Garibaldini, eludendo la vigilanza delle navi borboniche, passarono lo Stretto di Messina ed occuparono Reggio.
Allora anche quasi tutta la parte continentale del Regno delle Due Sicilie insorse contro i borboni, acclamando a Garibaldi e all'unità d'Italia, e l'avanzata dei Garibaldini attraverso la Calabria, la Basilicata e la Campania si svolse come una marcia trionfale in mezzo alle popolazioni che dappertutto innalzavano la bandiera tricolore.
II 7 settembre Garibaldi entrò trionfante in Napoli, mentre Francesco II si rifugiava nella fortezza di Gaeta, raccogliendo tra Capua e Gaeta le truppe che ancora gli erano rimaste fedeli.
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Sotto l'itinerario della spedizione dei Mille.
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L'intervento dell'esercito piemontese.
A questo punto il Cavour temette che della fortunata impresa garibaldina approfittassero i superstiti repubblicani per tentare di costituire una Repubblica dell'Italia meridionale e della Sicilia. Infatti il Mazzini, giunto in quei giorni a Napoli, già stava lavorando a questo scopo.
Egli sospettava inoltre che Garibaldi avesse l'intenzione di continuare la sua avanzata sino a Roma e di coronare l'opera del Risorgimento facendo a Vittorio Emanuele, in Campidoglio, la consegna delle terre conquistate. Ma gli Italiani non potevano in quel momento sopprimere lo Stato Pontificio senza provocare un intervento delle Potenze cattoliche, che avrebbe potuto compromettere anche l'esito finale dell'impresa già felicemente compiuta.
Per impedire al Mazzini di fare la Repubblica e a Garibaldi di proseguire per Roma, era necessario che Vittorio Emanuele intervenisse subito nell'Italia meridionale col suo esercito, assumendo ufficialmente la direzione e la responsabilità degli avvenimenti.
Dopo aver invano chiesto al Governo pontificio il permesso di far passare le truppe piemontesi attraverso le Marche e l'Umbria, egli diede al generale Enrico Cialdini l'ordine di varcare il confine dell'Emilia e di entrare con la forza nel territorio dello Stato Pontificio. Lo scontro decisivo con le milizie papali avvenne a Castelfidardo, presso Ancona, e la vittoria dei Cialdini portò alla conquista delle Marche e dell'Umhria (18 settembre 186o). Quindi l'esercito regio, con in testa lo stesso Vittorio Emanuele, proseguì verso l'Italia meridionale, ed entrò nell'Abruzzo.
Prima che esso potesse congiungersi con le forze garibaldine, i Borbonici presero l'offensiva ed attaccarono i volontari accampati sul Volturno. Erano 5o.ooo soldati fedeli al loro Re e disposti ad impegnarsi a fondo; ma non poterono resistere allo slancio dei volontari di Garibaldi, che ormai superavano
i 20.000 uomini, e dovettero ripiegare sul Garigliano. La battaglia del Volturno, combattuta e vinta il io ottobre i86o, segnò la fine del Regno borbonico. Il 26 ottobre al Quadrivio di Taverna della Catena, a circa otto chilometri da Teano, Vittorio Emanuele s'incontrò con Garibaldi, il quale lo salutò Re d'Italia e gli rimise i suoi poteri, sacrificando alla concordia nazionale e alle ragioni di Stato i suoi disegni su Roma.
11 giorno 8 novembre accompagnò il Re nel suo ingresso trionfale in Napoli; quindi, rifiutando onori e ricompense, l'eroe dei due mondi si congedò dai suoi volontari e fece vela verso il suo romitaggio di Caprera.
Dalla partenza dei Mille da Quarto all'incontro di Taverna della Catena erano passati meno di sei mesi: l'impresa di Garibaldi, protetta dinanzi alle Potenze straniere dall'autorità di Vittorio Emanuele, aveva risolto il problema dell'unità italiana.
Le fortezze di Capua e di Gaeta, assediate dalle truppe piemontesi, si arresero. Francesco II e la consorte Maria Sofia di Baviera ripararono a Roma, ospiti di Pio IX (febbraio 1861).
Nel Napoletano, in Sicilia, in Umbria e nelle Marche si fecero i plebisciti, che sanzionarono l'annessione di quelle terre al Regno di Vittorio Emanuele.
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Sopra: battaglia del Volturno.
Sotto: l'incontro al Quadrivio di Taverna della Catena tra Garibaldi e il re Vittorio Emanuele II.
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