|
|
Supersapiens.it
Forum |
Promozione Sviluppo Globale Benessere |
|
|
|
LA BATTAGLIA DI LEPANTO
La battaglia navale di Lepanto del 1571, vinta dalla coalizione cristiana, era dovuta alla necessità di bloccare l'espansione dell'impero ottomano,
soprattutto nei Balcani, arrivando a minacciare anche Vienna. Avvenne dopo i fatti di Famagosta e mostrò all'occidente che la forza ottomana non era
invincibile anche se nel giro di un anno la flotta turca fu ripristinata....
|
|
 La battaglia di Lepanto (artista sconosciuto.
|
La battaglia di Lepanto (Lèpanto; chiamata Efpaktos dagli abitanti, Lepanto dai veneziani e Inebahti in turco), detta anche battaglia delle Echinadi o
Curzolari, fu uno scontro navale avvenuto il 7 ottobre 1571, nel corso della guerra di Cipro, tra le flotte musulmane dell'Impero ottomano e quelle cristiane
(federate sotto le insegne pontificie) della Lega Santa che riuniva le forze navali della Repubblica di Venezia, dell'Impero spagnolo (con il Regno di Napoli
e il Regno di Sicilia), dello Stato Pontificio, della Repubblica di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Granducato di Toscana e del
Ducato di Urbino.
La battaglia, quarta in ordine di tempo e la maggiore, si concluse con una schiacciante vittoria delle forze alleate, guidate da Don Giovanni d'Austria, su quelle ottomane
di Müezzinzade Alì Pascià, che perse la vita nello scontro.
Quadro storico europeo
Gli eserciti turchi dopo l'occupazione di Costantinopoli (1453) sembrano inarrestabili. Vengono soggiogate Serbia e Bosnia. In Albania Giorgio Castriota "Scanderbeg" resiste sino al 1468. Genova e Venezia perdono molte delle loro colonie orientali. Tra il 1512 ed il 1520 vengono conquistate Siria, Arabia e Egitto.
Tra il 1520 ed il 1560 con Solimano II "il magnifico" l'Impero Ottomano raggiunge il massimo splendore a spese delle nazioni europee e dei popoli confinanti.
Nel 1521 viene occupata Belgrado, nel 1522 è la volta di Rodi, nel 1526 si svolge la battaglia di Mohacs con conseguente avanzata in Ungheria.
Austria, Polonia e Venezia diventano la prima linea davanti agli ottomani.
Nel 1529 viene assediata Vienna, nel 1533 si procede alla spartizione dell'Ungheria ma anche nel vicino oriente i turchi non si arrestano conquistando Baghdad e la Mesopotamia.
Nel 1566 la fortezza di Seghedino cade in mani turche e nel 1568 gli Asburgo vengono costretti a pagare un tributo annuo.
Il fiorente Impero Ottomano affonda le radici nell'oppressione e nella violenza. Le innumerevoli guerre di conquista vengono alimentate con decine di migliaia di schiavi europei e africani che rinforzano le armate e alle popolazioni cristiane viene imposta la consegna di un bambino ogni cinque per costituire le truppe giannizzere.
Per ovviare la mancanza di classi amministrative, commerciali e industriali, vengono tollerate le popolazioni locali senza costrizione alla conversione ma sotto imposizione di
obbedienza e tassazione.
La coalizione cristiana era stata promossa alacremente da Papa Pio V per soccorrere materialmente la veneziana città di Famagosta, sull'isola di Cipro, assediata dai
turchi e strenuamente difesa dalla guarnigione locale comandata da Marcantonio Bragadin e Astorre II Baglioni. L'isola, già possedimento ottomano, faceva parte del
dominio di Venezia dal 1480 e per essa veniva pagato ai turchi un tributo annuo di 8.000 ducati. Il sultano si sentì dunque legittimato a rivendicare il controllo di
Cipro, giovandosi, fra l'altro, del favore con cui auspicava sarebbe stata accolta la dominazione turca dalla popolazione locale, che rimproverava ai veneziani
un'eccessiva ingerenza e un troppo duro sfruttamento.
Il contesto è quello di una lotta per il controllo del Mediterraneo. Benché tra Oriente e Occidente gli scambi di persone, merci, denaro e tecniche fossero sempre intensissimi,
il crescente espansionismo ottomano in quegli anni preoccupava sempre più i governi dell'occidente mediterraneo. Esso minacciava non solo i possedimenti veneziani come Cipro, ma
anche gli interessi spagnoli per via della pirateria. Consapevole di questa tensione crescente, Pio V ritenne allora che il momento fosse propizio per coalizzare in una Lega Santa
le troppo divise forze della cristianità, alimentando lo spirito di Crociata per creare coesione intorno all'iniziativa.
Lo stendardo, un drappo di damasco rosso su cui era dipinto il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo, benedetto dal Papa, era stato consegnato a Marcantonio Colonna
in San Pietro l'11 giugno 1570, ma a seguito delle lunghe trattative con Filippo II sulla composizione della Lega e sull'assegnazione del comando, fu deciso, per
appianare i dissidi, di affidare il comando a Giovanni d'Austria, rimanendo il Colonna suo Luogotenente Generale anche per volontà dei Veneziani, e un altro stendardo, un
telo di seta cremisina con l'immagine del Crocifisso, fu consegnato solennemente dal Viceré di Napoli, cardinale di Granvelle, a Don Giovanni d'Austria, nella basilica
di Santa Chiara a Napoli il 14 agosto 1571. Come base di ricongiungimento dell'armata cristiana era stata scelta Messina, situata in posizione strategica rispetto al
teatro delle operazioni. Qui, a partire dal luglio 1571, dopo mesi di difficoltose trattative, si incontrarono le flotte alleate. Ai primi di settembre, la flotta della Lega
era riunita nel porto siciliano: al comando di Don Giovanni erano 209 galere (di cui 203 o 204 avrebbero preso parte alla battaglia) e 6 galeazze, oltre ai trasporti e al naviglio
minore.
Le forze risultavano così composte: 12 galere del papa armate dal granduca di Toscana di cui 5 equipaggiate dai Cavalieri di Santo Stefano, 10 galere di Sicilia, 30 galere di
Napoli, 14 galere di Spagna, 3 galere di Savoia, 4 galere di Malta, 27 galere di Genova (di cui 11 appartenenti a Gianandrea Doria), 109 galere (di cui 60 giunte da Candia) e 6
galeazze di Venezia. La flotta della Lega, salpata da Messina il 16 settembre si mosse con velocità differenti e si trovò riunita solo il 4 ottobre successivo nel porto di
Cefalonia. Qui la raggiunse la notizia della caduta di Famagosta e dell'orribile fine inflitta dai musulmani a Marcantonio Bragadin, il senatore veneziano comandante la fortezza.
Il 1º agosto Famagosta si era arresa ed era stato raggiunto rapidamente un accordo con Lala Mustafà, il comandante della spedizione ottomana. I turchi avrebbero messo a disposizione
delle imbarcazioni per evacuare i veneziani a Candia, mentre altra parte dell'accordo prevedeva che la popolazione civile non sarebbe stata molestata. Nel documento di capitolazione
il comandante turco si era impegnato promettendo e giurando per Dio et sopra la testa del Gran Signore di mantenere quanto nei capitoli si conteneva[19]. Qualche giorno dopo però,
alla consegna delle chiavi della città ai nuovi possessori, c'erano stati scontri verbali tra Bragadin e il comandante turco, che irrimediabilmente avevano portato alla rottura
dell'accordo.
Sembra che Lala Mustafà si fosse inizialmente adirato con Bragadin e i suoi capitani dopo aver scoperto dell'uccisione, durante la tregua, di decine di soldati turchi prigionieri
dei veneziani, vicenda testimoniata da alcuni superstiti fuggiaschi che avevano raccontato l'accaduto. Inoltre Bragadin si era opposto alla decisione del Pascià di trattenere a
Famagosta uno dei capitani veneziani come garanzia del ritorno delle imbarcazioni turche al porto. La richiesta di trattenere un comandante veneto come ostaggio era ragionevole, ma
viziata dall'errore di non essere stata inserita direttamente nel capitolato del 1º agosto. L'ostinazione di Bragadin aveva scatenato la rabbia di Mustafà, che a sua volta aveva
avuto una reazione di eccessiva violenza, tanto da guadagnarsi, una volta tornato in patria, la disapprovazione e il rimprovero da parte dello stesso sultano. Infatti Mustafà
aveva fatto imprigionare i veneziani sulle galere turche, aveva fatto decapitare i capitani al seguito di Bragadin e infine quest'ultimo dopo una serie di torture era stato
scorticato vivo. La sua pelle era stata poi riempita di paglia e innalzata sulla galea del Pascià, che l'aveva condotta a Costantinopoli.
Apprese dunque le notizie di Famagosta e nonostante il maltempo le navi della Lega presero il mare e giunsero, il 6 ottobre davanti al golfo di Patrasso, nella speranza di
intercettare la potente flotta ottomana. Si noti che i principali Stati d'Italia e le più grandi potenze europee dell'epoca, come ad esempio la Spagna, avevano dovuto coalizzarsi
per poter sperare di battere l'Impero ottomano, allora all'apice della sua potenza. Va notato che fino al XV secolo, i turchi non avevano vantato particolari attitudini alla vita
marinara. La loro forza, più che per l'armamento o per la tecnica e strategia militari, in cui non superavano per qualità i contingenti occidentali, si era manifestata soprattutto
per il tenace spirito di coesione e solidarietà, che tradizionalmente contraddistingueva i corpi armati ottomani. Il 7 ottobre 1571, domenica, Don Giovanni d'Austria fece schierare
le proprie navi in formazione serrata, deciso a dar battaglia: le distanze erano così ridotte che non più di 150 metri separavano le galee.
|
|
Papa Pio V ritratto da El Greco
Sopra: Selim II.Era figlio di Solimano il Magnifico e di Roxelana (o Khurrem), una schiava ucraina del suo harem.
Solimano però aveva già avuto un figlio maschio da un'altra concubina, Mustafa, il quale era stato designato come suo successore.
Solimano, inoltre, ebbe un altro figlio maschio da Rosselana: Bayezid. Rosselana (ben sapendo che, in base alla legge del fratricidio, entrambi i suoi due figli maschi
sarebbero stati uccisi in favore dell'erede legittimo Mustafà) convinse Solimano che il figlio primogenito stesse complottando contro di lui. In realtà Mustafà rimase sempre
fedele al padre, tuttavia, sorprendentemente, Solimano si fece persuadere e nel 1553, durante una campagna militare contro la Persia, convocò Mustafà nella sua tenda e lo
fece strangolare davanti a sé. A quel punto il favorito alla successione sembrò essere il figlio minore Bayezid, in quanto Selim risultava essere uno spiacevole esempio di
dissolutezza. Egli infatti preferiva di gran lunga i piaceri del vino agli affari dello Stato, inoltre era debole e poco determinato.
Una personalità come Selim avrebbe però fatto molto comodo a numerosi componenti della corte, un sultano debole sarebbe stato infatti molto più "manovrabile" per i fini
di molti potenti. Ulteriori intrighi di palazzo portarono così, nel 1561, all'arresto e all'uccisione di Bayezid.
Nell'Europa meridionale, nel 1570, sotto il sultano Selim II, i turchi conquistarono Cipro,
possedimento veneziano, provocando la reazione del mondo cristiano.
|
Filippo II eseguito da Tiziano.
Tiziano Aspetti, Marcantonio Bragadin (1571 ca.)
don Giovanni d'Austria. Figlio di Carlo V e di Barbara di Baviera, Giovanni mostrò subito come il suo
indirizzo fosse verso la carriera militare, non verso quella ecclesiastica verso la quale era stato indirizzato.
Giovanni Andrea Doria
Sotto a sinistra: Ali Pasha comandante in capo della flotta ottomana.
L'ammiraglio della flotta turca era un uomo politico più che un vero e proprio militare.
Arrivò alla battaglia di Lepanto a 50 anni, con la fama di invicibilità, deriva- tagli dal dente destro di Maomet- to, che portava sempre in batta- glia,
rinchiuso in una capsula di cristallo. Sotto il profilo strate- gico, non gli si possono attribuire grandi errori.
|
|
|
|
Esca
Don Giovanni decise di lasciare isolate in avanti, come esca, le 6 potentissi- me galeazze veneziane, che per prime aprono il fuoco. Essendo le galeazze difficilmente abbordabili, sia
per la loro notevole altezza e sia per i cannoni disposti a prora, lungo i fianchi e a poppa, il comandante aveva inoltre deci- so di togliervi un gran numero di spadaccini e
sostituirli con archibugieri, i quali crearono subito gravi danni alla flotta turca. La potenza di fuoco della flotta cristiana era infatti più forte rispetto a quella nemica,
grazie agli armamenti veneziani che negli anni precedenti erano divenuti sempre più poderosi, mentre i turchi non erano riusciti a tenere il passo con le innovazioni, ritrovandosi
quindi con un'artiglieria meno numerosa e potente. La potenza di fuoco delle galeazze si dimostrò devastante, con l'affonda- mento/danneggiamento di circa 70 navi e distruzione dello
schieramento iniziale della flotta ottomana.
Alì non tentò l'abbordaggio delle galeazze, definite dei veri e propri castelli in mare da non essere da umana forza vinti, ma decise infine di superarle e di scagliare tutta la sua
flotta in uno scontro frontale, mirando unicamente all'abbordaggio della nave di Don Giovanni per provare a ucciderlo demora- lizzando così la flotta della Lega Cristiana. Ed essendo
in inferiorità numerica (167-235) tentò di circondarla, utilizzando la tattica navale classica.
SCONTRO.
Con il vento a favore e producendo un rumore assordante di timpani, tamburi e flauti i turchi cominciarono l'assalto alle navi della Lega cristiana che erano invece nel più assoluto
silenzio. Improvvisamente intorno alle ore 12 il vento cambiò direzione: le vele dei turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono.
Quando i legni giunsero a tiro di cannone delle galeazze i cristiani ammainarono tutte le loro bandiere e Don Giovanni innalzò lo Stendardo di Lepanto con l'immagine del Redentore
Crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i combattenti ricevettero l'assoluzione secondo l'indulgenza concessa da Papa Pio V per la crociata e i forzati liberati dalle
catene e nell'animazione del momento, Giovanni d'Austria ordinando di dare fiato alle trombe, sulla piazza d'armi della sua galera con due cavalieri, si mise a ballare a vista di
tutta l’armata una concitata danza, chiamata dagli Spagnoli la gagliarda.
La prima azione della battaglia da parte della Lega fu l'ordine di Doria di prendere il largo allontanandosi dal resto della flotta, al vedere ciò Alì Pascià ritenendo che fosse
nell'intenzione del Doria abbandonare il campo di battaglia gli fece mandare un tiro cannone a cui però il Doria non rispose e Giovanni d'Austria vedendo ciò fece rispondere dalla
sua galera con un tiro di cannone in segno di accettazione della sfida.
Don Giovanni d'Austria perciò puntò fulmineamente diritto contro la Sultana di Alì che riuscì a evitare il fuoco di fila delle bordate delle galeazze, poste circa un miglio più
avanti rispetto alla flotta della coalizione e i cui proiettili erano stati studiati in modo che uscendo dai fusti dei cannoni si aprissero in due emisfere unite da catene che
andavano a spezzare le alberature delle galee ottomane, oltrepassandole per attaccare le galee nemiche. Il reggimento di Sardegna diede per primo l'arrembaggio alla nave turca,
che divenne il campo di battaglia: i musulmani a poppa e i cristiani a prua.
Per i cristiani gli scontri coinvolsero all'inizio il veneziano Barbarigo, alla guida dell'ala sinistra e posizionato sotto costa. Egli dovette parare il colpo del comandante
Scirocco, impedire che il nemico potesse insinuarsi tra le sue navi e la spiaggia per accerchiare la flotta cristiana. La manovra ebbe solo un parziale successo e lo scontro si
accese subito violento. La stessa galea di Barbarigo diventò teatro di un'epica battaglia nella battaglia con almeno due capovolgimenti di fronte all'infuriare della quale il
Barbarigo si alzò la celata dell'elmo per poter impartire gli ordini con più libertà quando fu colpito a un occhio da una freccia nemica. Le retrovie dovettero correre in soccorso
dei veneziani per scongiurare la disfatta: ma grazie all'arrivo della riserva guidata dal Marchese di Santa Cruz le sorti si riequilibrarono e così Scirocco viene catturato, ucciso
e immediatamente decapitato.
Al centro degli schieramenti Alì Pascià cercò e trovò la galea di Don Giovanni d'Austria, la cui cattura avrebbe potuto risolvere lo scontro. Contemporaneamente altre galere
impegnarono Venier e Marcantonio Colonna. Molti furono gli episodi di eroismo: l'equipaggio della galera toscana Fiorenza dell'Ordine di Santo Stefano fu quasi interamente
ucciso, eccetto il suo comandante Tommaso de' Medici con quindici uomini. Al terzo assalto i sardi arrivarono a poppa. Don Giovanni fu ferito a una gamba. Più volte le navi
avanzarono e si ritirarono, Venier e Colonna dovettero disimpegnarsi per accorrere in aiuto a Don Giovanni che sembrava avere la peggio assieme all'onnipresente Marchese di
Santa Cruz. Alla sinistra turca, al largo, la situazione era meno cruenta ma un po' più complicata. Giovanni Andrea Doria disponeva di poco più di 50 galee, quasi quante
quelle del veneziano Barbarigo (circa 60) sul corno opposto ma davanti a sé trovò 90 galere, cioè circa il doppio dei nemici fronteggiati dai veneziani e oltretutto in
un'area molto più ampia di mare aperto; per questo pensò a una soluzione diversa dallo scontro diretto. Giovanni Andrea Doria infatti, a un certo momento della battaglia,
cominciò una manovra di allargamento verso il mare aperto del corno al suo comando, in reazione a un'analoga manovra del corno sinistro della flotta ottomana, che minacciava
di aggiramento il resto della flotta cristiana.
Eventi del corno destro
Il ruolo cruciale di Gianandrea Doria è stato spesso oggetto di disputa: gli avversari dei genovesi insinuarono che egli si fosse defilato o per preservare il proprio naviglio
o perché obbediva ancora agli ordini di Filippo II o, si disse, perché si era messo d'accordo con Uluc Alì per ridurre al minimo i danni alle loro imbarcazioni (anche il comandante
barbaresco come il genovese affittava le galere al suo Signore). Altri lo difendono definendo la sua iniziativa improntata a una grande lucidità tattica; altri ancora non prendono
posizione, descrivendo semplicemente gli eventi. La manovra del Doria aprì un varco fra il centro e il suo corno del quale approfittò rapidamente il suo diretto avversario.
Uluc Alì si insinuò fra le due squadre cristiane, attaccò un gruppo di galee dalmate tra cui la "San Trifone" di Cattaro comandata dal sopracomito Girolamo Bisanti lì rimaste a
sostenere l'impeto nemico in maniera da non consentirne l'aggiramento.
Con il vento in poppa, assalì da dietro la Capitana (ossia l'ammiraglia) dei Cavalieri di Malta, al cui comando era Pietro Giustiniani, priore dell'Ordine. La Capitana, circondata
da sette galere nemiche fu catturata. Uluc Alì si impossessò del vessillo dei Cavalieri di Malta, fece prigioniero Giustiniani e prese a rimorchio la sua galea. Oltre la Capitana
di Malta, anche la Fiorenza e la San Giovanni (galere toscane della flotta papale), e la Piemontesa (della squadra sabauda), circondate da un nugolo di galere turchesche, caddero
nelle mani di Uluc Alì. L'analisi del comportamento del Doria è ancor oggi oggetto di disputa. Secondo Nicolò Capponi, l'accusa che Doria fosse riluttante a rischiare le sue
galere è smentita dal fatto che più della metà erano impegnate nelle altre divisioni. Quanto alla tesi di un accordo clandestino tra il genovese e Uluc Alì essa non tiene conto
del fatto che i due comandanti non potevano in alcun modo prevedere che si sarebbe trovati l'uno di fronte all'altro anzi, stando ai resoconti delle spie ottomane, la presenza
di Doria non era nemmeno prevista.
Viste le circostanze, Doria non avrebbe potuto reagire diversamente di fronte al tentativo di accerchiamento di Uluc Alì. Vero è che la sua manovra aggravò lo svantaggio numerico
del corno destro, dato che alcune galere, per lo più veneziane, si staccarono dal troncone principale, e che Uluc Alì, invertendo improvvisamente la rotta, puntò dritto verso le
ritardatarie. Pare che Doria non abbia notato subito questa mossa, forse perché l'avversario si muoveva nascosto da una coltre di fumo, ma quando capì quanto stava per accadere
reagì rapidamente: virò in direzione est e si diresse vero il nemico. Capponi prosegue poi descrivendo lo sviluppo dell'azione, e sottolineando come la contromanovra del Doria,
unita all'intervento della riserva del centro cristiano, abbia provocato l'accerchiamento delle galee di Uluc Alì, il quale riuscì a fuggire abbandonando tutte le unità che aveva
catturato, tranne una.
Alessandro Barbero, al contrario, sottolinea che “Uluc Alì dimostrò di saperla molto più lunga” del Doria e che la manovra di allargamento del corno destro già all'indomani della
battaglia fece circolare all'interno della flotta il sospetto che il l'ammiraglio genovese volesse sottrarsi al combattimento e che tale sospetto non si è più dissipato fino a
oggi. Particolarmente duro fu il giudizio della Santa Sede: Pio V minacciò di morte Doria se si fosse presentato a Roma, dicendo che per il momento faceva meglio a starsene lontano.
Secondo il Papa, Gianandrea era “corsaro et non soldato” e il re di Spagna avrebbe fatto meglio a sbarazzarsi di lui. Il pontefice espresse direttamente a Filippo II le sue riserve
su Gianandrea suggerendogli di recedere dall'asiento (il contratto di locazione delle galee del Doria). La galera del Doria e le altre unità del suo corno avevano subìto meno
perdite di tutto lo schieramento cristiano, cosa che colpì negativamente quasi tutti i comandanti nel raduno generale che seguì la battaglia, alimentando le voci e i sospetti.
Tuttavia, sempre secondo quanto scrive Barbero, “almeno qualche testimone attribuisce a Gianandrea motivazioni più nobili”. In una lettera scritta da Messina l'8 novembre 1571, don
Luis Requesens informò Filippo II di aver parlato col Doria poco prima dell'inizio della battaglia. Questi gli anticipò di volersi allargare verso il mare aperto per lasciare più
spazio di schieramento e di manovra al resto della flotta, e si lamentò del fatto che non tutte le galere del suo corno tenevano il passo. A chi faceva “maliziosamente notare che
la galera del Doria non aveva subito troppi danni durante la battaglia” don Luis replicava “che non si può morire a dispetto di Dio”, ovvero che non si devono necessariamente
sostenere perdite consistenti in una vittoria, anzi. Barbero cita anche il giudizio di Bartolomeo Sereno secondo il quale Doria aveva fatto bene ad allargarsi per evitare di
essere aggirato dalla numericamente superiore squadra di Uluc Alì.
Quest'ultimo tuttavia aveva manovrato ottimamente, mettendo in difficoltà il genovese e inducendolo a portarsi troppo al largo, lasciando indietro diverse galere (alcune
della quali, secondo Sereno, rimasero indietro apposta disubbidendo agli ordini dell'ammiraglio e invertirono al rotta di propria iniziativa dirigendosi verso il centro) e
sfilacciando il suo schieramento. Barbero sottolinea infine che quando Uluc Alì si insinuò nel varco aperto fra il corno destro e il centro, il Doria invertì la rotta “col
proposito ormai superato dagli eventi di portarsi alle spalle del nemico” ma arrivò tardi per salvare le galere ritardatarie. Alcuni storici navalisti stranieri si limitano
a descrivere la manovra di Doria come un movimento di allargamento effettuato in risposta al tentativo di accerchiamento di Uluc Alì, senza proporre tesi particolari sul suo
comportamento. Jan Glete, ad esempio, riprendendo l'analisi di J.F. Guilmartin, sottolinea come Alì Pascià intendesse aggirare su entrambi i fianchi la flotta della Lega, e come
i movimenti delle squadra del Doria e di Uluc Alì verso il mare aperto fossero la conseguenza di questo tentativo. I turchi di Uluc Alì alla fine riuscirono a incunearsi fra il
centro e la destra cristiana, ma furono “prima bloccati dalla squadra cristiana di riserva, e poi attaccati da quella rimasta al largo”, cioè dal corno del Doria.
Epilogo.
Al centro, il comandante in capo ottomano Müezzinzade Alì Pascià, già ferito, cadde combattendo. La nave ammiraglia ottomana fu abbordata dalle galee toscane Capitana e Grifona e,
contro il volere di Don Giovanni, il cadavere dell'ammiraglio ottomano Alì Pascià fu decapitato e la sua testa esposta sull'albero maestro dell'ammiraglia spagnola. La visione del
condottiero ottomano decapitato contribuì enormemente a demolire il morale dei turchi. Di lì a poco, infatti, alle quattro del pomeriggio, le navi ottomane rimaste abbandonavano
il campo, ritirandosi definitivamente. Il teatro della battaglia si presentava come uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini
agonizzanti. Erano trascorse quasi cinque ore e il giorno volgeva ormai al tramonto quando infine la battaglia ebbe termine con la vittoria cristiana.
Don Giovanni d'Austria riorganizzò la flotta per proteggerla dalla tempesta che minacciava la zona e inviò galee in tutte le capitali della lega per annunciare la clamorosa
vittoria: i turchi avevano perso 80 galee che erano state affondate, ben 117 vennero catturate, 27 galeotte furono affondate e 13 catturate, inoltre 30.000 uomini persi tra morti
e feriti, altri 8.000 prigionieri. Inoltre vennero liberati 15.000 cristiani dalla schiavitù a i banchi dei remi. I cristiani liberati dai remi sbarcarono a Porto Recanati e
salirono in processione alla Santa Casa di Loreto dove offrirono le loro catene alla Madonna. Con queste catene furono costruite le cancellate davanti agli altari delle cappelle.
Gli Ottomani avevano salvato un terzo (circa 80) delle loro navi e se tatticamente si trattò di una decisiva vittoria cristiana, la dimensione della vittoria strategica è
dibattuta: secondo alcuni la sconfitta segnò l'inizio del declino della potenza navale ottomana nel Mediterraneo.
Altri fanno notare che la flotta turca si riprese rapidamente, riuscendo già l'anno successivo a mettere in mare un grosso contingente di navi, grosso modo equivalente a quelle
messe in campo dalla Lega. Queste flotte erano però meno armate e addestrate delle precedenti, e dopo Lepanto la flotta turca evitò a lungo di ingaggiare grandi battaglie,
dedicandosi invece con successo alla guerra di corsa e al disturbo dei traffici nemici. Anche da parte cristiana si riaffermò una pirateria attiva. Dopo Lepanto gli occidentali
ebbero a disposizione migliaia di prigionieri che furono messi ai remi assicurando, per diversi anni, un motore nuovo alle loro galere. La vittoriosa guerra di Candia, alla metà
del XVII secolo, mostra che il vigore delle forze turche era ancora temibile nel Mediterraneo orientale. Tuttavia con l'inizio di una lunga serie di guerre con la Persia, che
proseguirono nel Caucaso e in Mesopotamia per tutti gli anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la flotta della Sublime porta fu messa in parziale disarmo e ridotta.
Inoltre la flotta da guerra turca rimase numericamente paragonabile a quella veneziana fino alla fine del XVIII secolo. I morti di nobiltà cattolica vennero sepolti nella chiesa
dell'Annunziata a Corfù (spostati dopo il bombardamento dei tedeschi del 13 settembre 1943 al cimitero cattolico di Corfù) mentre i morti nobili di religione ortodossa (piuttosto
Corfioti) furono sepolti nella chiesa di S. Nicola nominata "Dei Vechi" e quelli non nobili in una chiesetta fuori le mura di Corfù denominata fin da allora "Dei martiri". Molti
prigionieri ottomani, in particolare gli abilissimi e addestratissimi arcieri e i carpentieri, furono uccisi dai veneziani, sia per vendicare i prigionieri uccisi dai turchi in
precedenti occasioni, sia per impedire alla marineria turca di riprendersi rapidamente. Quindi le navi fecero rientro a Napoli. La bandiera della nave ammiraglia turca di Alì
Pascià, presa da due navi dei Cavalieri di Santo Stefano, la "Capitana" e la "Grifona", si trova a Pisa, in quella che era la chiesa di quell'ordine.
|
|
Disposizione delle flotte prima dello scontro.
Armamenti.
Lo schieramento cristiano vinse soprattutto grazie alla superiorità dell'equipaggiamento, che compensò la mancanza di esperienza delle truppe imbarcate, decisivo fu anche il
vantaggio insito nella collocazione avanzata delle galeazze e l'enorme sproporzione nel numero dei pezzi d'artiglieria. Inoltre la fanteria era dotata di un superiore armamento
individuale: i suoi soldati potevano contare sugli archibugi, (come la compagnia di tiratori scelti degli oltre 400 archibugieri di Sardegna), mentre quelli turchi erano ancora
armati con archi e dardi, mazze, scuri, spade e giavellotti. La maggior parte dei soldati cristiani indossava corazze, sia del tipo normalmente utilizzato dalla fanteria, sia di
modelli (molto diffusi tra i Genovesi) che potevano essere tolte rapidamente se si doveva poi nuotare. I soldati ottomani, e ancor di più quelli barbareschi, preferivano invece
indossare armature leggerissime, spesso in cuoio, oppure non indossarle affatto, in modo che se fossero caduti in mare sarebbero stati più liberi nei movimenti.
Sopra: galeazza spagnola.
sotto: Modello in legno di una galea veneziana (Museo storico navale di Venezia)
Il vascello più importante dello schieramento cristiano era la galeazza veneziana. Al contrario della galea comune, questa è sovradimensionata, con ponte a coprire i banchi dei
rematori. Parzialmente corazzata e pesantemente armata non solo a prua e a poppa ma anche sulle fiancate. Le linee in realtà possono trarre in inganno chi non le conosce, facendole
confondere con vascelli da carico: cosa che tra l'altro capitò ai turchi. Solo sei di queste unità rinforzavano lo schieramento cristiano ma furono devastanti sia per le galere
nemiche sia per il morale dei loro equipaggi. Con la galeazza si raggiunse l'apice dell'evoluzione della galea, ma nel contempo essa ne rappresentò anche il canto del cigno. Le
galee con la loro propulsione a remi furono progressivamente sostituite da velieri a vela quadra e quindi progressiva- mente abbandonate.
Cannone navale.
Le artiglierie pesanti utilizzate all'epoca sui vascelli possedevano un buon rapporto gittata-efficacia fin quasi al chilometro se puntate su schieramenti compatti. Naturalmente
quel rapporto peggiorava notevolmente puntando il pezzo su singole galee con ampia libertà di manovra.
Ogni galea del Cinquecento portava comunque un discreto armamento "in caccia". Si trattava di almeno un grosso cannone, posto a prua e generalmente più potente e pesante di
quelli utilizzati dai vascelli coevi. Il pezzo era accompagnato da 2-4 pezzi più leggeri, tra cui falconetti a retrocarica utilizzati solo come armi antiuomo. Le galere grosse e le
capitane talvolta avevano pezzi girevoli sul "castello" di poppa, detto "carrozza".
L'armamento d'artiglieria delle galere ottomane, e ancor di più di quelle barbaresche, era complessivamente più leggero, poiché i loro capitani facevano grande affidamento sulla
velocità, sull'agilità e sulla possibilità di muoversi in acque basse, e quindi non intendevano appesantire i loro scafi. Spesso le loro galere avevano un singolo grosso cannone
in caccia (di calibro e potenza superiore a quello delle galere della Lega), e pochissimi pezzi d'accompagnamento. Sia la flotta cristiana sia quella musulmana prediligevano le
costose, ma leggere e sicure, artiglierie in bronzo, rari i pezzi in economica (ma pesante e pericolosa) ghisa, per lo più fabbricati a Brescia e nelle Fiandre.
Archibugio rinvenuto sul galeone Vasa (1682).
Per quel che riguarda le armi di piccolo calibro, all'importanza della gittata è lecito pensare che si debba sostituire la capacità di penetrazione delle protezioni individuali
nemiche, l'abilità nella mira e la velocità di ricarica del soldato. Non bisogna sottovalutare l'arco composito (o arco turchesco appunto) che era l'arma più diffusa tra la
fanteria di marina ottomana, esso aveva una gittata e una precisione superiore a quella dell'archibugio, oltre che una velocità di ricarica superiore; si trattava però di un'arma
meno letale (moltissimi furono i soldati cristiani feriti, ma non uccisi, e che continuarono a combattere), e non in grado di perforare le pesanti corazze spagnole. Per questo
motivo molti giannizzeri erano già stati armati con archibugi e moschetti, di qualità leggermente inferiore però a quelli prodotti in Italia e in Spagna, e con polveri meno
efficienti.
Significato religioso.
Come già per la Battaglia di Poitiers e la futura Battaglia di Vienna, la battaglia di Lepanto ebbe un profondo significato religioso. Prima della partenza, il Pontefice Pio V,
benedice lo stendardo della Lega raffigurante su fondo rosso il Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo e sormontato dal motto costantiniano In hoc signo vinces, quindi lo
consegna al Duca Marcantonio Colonna di Paliano: tale simbolo, insieme con l'immagine della Madonna e la scritta "S. Maria succurre miseris", issato sulla nave ammiraglia Real,
sotto il comando del Principe Don Giovanni d'Austria, sarà l'unico a sventolare in tutto lo schieramento cristiano all'inizio della battaglia quando, alle grida di guerra e ai
primi cannoneggiamenti turchi, i combattenti cristiani si uniranno in una preghiera di intercessione a Gesù Cristo e alla Vergine Maria.
Anche se l'annuncio della vittoria giungerà a Roma ventitré giorni dopo, portato da messaggeri del principe Colonna, si narra che il giorno stesso della battaglia san Pio V ebbe
in visione l'annuncio della vittoria nell'ora di mezzogiorno e che, dopo aver esclamato: "sono le 12, suonate le campane, abbiamo vinto a Lepanto per intercessione della Vergine
Santissima", dette congedo agli astanti, tra i quali era presente il cardinale Cesi; da allora continua la tradizione cattolica di sciogliere le campane di tutte le chiese alle
12 in punto. La vittoria fu attribuita all'intercessione della Vergine Maria, tanto che Papa Pio V decise di dedicare il giorno 7 ottobre a Nostra Signora della Vittoria
successivamente trasformata da Gregorio XIII in Nostra Signora del Rosario, per celebrare l'anniversario della storica vittoria ottenuta, si disse, per intercessione dell'augusta
Madre del Salvatore, Maria.
Le conseguenze
La battaglia di Lepanto fu la prima grande vittoria di un'armata o flotta cristiana occidentale contro l'Impero ottomano. La sua importanza fu perlopiù psicologica, dato che i
turchi erano stati per decenni in piena espansione territoriale e avevano precedentemente vinto tutte le principali battaglie contro i cristiani d'oriente. La vittoria dell'alleanza
cristiana non segnò comunque una vera e propria svolta nel processo di contenimento dell'espansionismo turco. Gli ottomani infatti riuscirono già nel periodo successivo a
incrementare i propri domini, strappando, fra l'altro, alcune isole, come Creta, ai veneziani. La parabola discendente vissuta dall'impero ottomano nel corso del Seicento,
riflette semmai una fase di declino che coinvolse all'epoca tutti i Paesi affacciati nel bacino del Mediterraneo in seguito allo spostamento verso le rotte oceaniche dei grandi
traffici internazionali.
In realtà più di un secolo dopo Lepanto i turchi erano ancora sotto le mura di Vienna (1683), mentre Venezia dovette combattere altre lunghe guerre con l'Impero ottomano, perdendo
infine il controllo su tutte le isole e i porti che possedeva in Egeo, eccettuate le isole Ionie. Inoltre la flotta ottomana riuscì a sconfiggere quella veneziana presso capo
Matapan al principio del Settecento; segno che l'impero, pur in relativa decadenza, continuava a essere una delle principali potenze europee. La scarsa coesione tra i vincitori
impedì alle forze alleate di sfruttare appieno la vittoria per ottenere una supremazia duratura sugli Ottomani. Non solo: l'esercito cristiano non riconquistò neppure l'isola di
Cipro, che era caduta da appena due mesi in possesso ottomano. Questo a causa del volere di Filippo II, il quale non voleva che i Veneziani acquisissero troppi vantaggi dalla
vittoria, visto che essi erano i più strenui rivali del progetto politico spagnolo di dominio della penisola italiana.
Nel 1573 la Serenissima fu quindi costretta a firmare un trattato di pace a condizioni poco favorevoli. Il Gran Visir Sokollu, in quell'occasione, disse ai Veneziani che avrebbero
potuto fidarsi più degli ottomani che degli altri Stati europei, se solo avessero ceduto al volere del Sultano. Dal canto suo, l'Impero Ottomano, nella persona del sultano,
esprimeva all'ambasciatore veneziano a Costantinopoli (presumibilmente un anno dopo Lepanto), le sensazioni della Porta sulla sconfitta: Gli infedeli hanno bruciacchiato la mia
barba; crescerà nuovamente.
Poco dopo Lepanto, la Porta cominciò effettivamente un'opera di ricostruzione della flotta che si concluse l'anno successivo. A seguito di questo riarmo la marina turca riacquistò
la superiorità numerica nei confronti delle potenze cristiane, ma non riuscì a conquistare una sostanziale supremazia nel Mediterraneo, soprattutto nella sua metà occidentale. Le
nuove navi turche infatti erano state costruite troppo in fretta, tanto che l'ambasciatore veneziano disse che bastavano 70 galee ben armate e ben equipaggiate per distruggere
quella flotta costruita con legname marcio e cannoni mal fusi.
La battaglia di Lepanto ebbe anche importanti conseguenze all'interno del mondo musulmano, gli Hafsidi e le varie Reggenze barbaresche governavano il Maghreb in nome del Sultano
ottomano e sotto il suo protettorato, soprattutto perché costretti dalla sua potente flotta e desiderosi di ottenere protezione contro la Spagna. Dopo questa battaglia fu chiaro
che la flotta turca non era invincibile, mentre la Spagna, pur vittoriosa, era troppo impegnata a reprimere la rivolta dei Paesi Bassi spagnoli, e quindi le Reggenze barbaresche
"rialzarono la testa", guadagnando spazi d'autonomia, o dedicandosi nuovamente alla guerra di corsa, anche contro gli interessi del Sultano.
Torna alla HomeBase
|
|
|